STORIA DELL'ELETTRONICA II

L'ELETTRONICA INTELLIGENTE E L'ESPLOSIONE DEL BIG BEAT
 
A proposito di IDM (sigla che abbrevia la corrente dell’Intelligent Dance Music sorta tra Usa, Gran Bretagna e Germania nei primi ‘90s), un avvenimento fondamentale fu la pubblicazione, nel 1992, di Artificial Intelligence da parte dell’etichetta Warp: una compilation che raccoglieva stimoli e invenzioni di una manciata di artisti votati ad un’elettronica non da mainstream bensì “intelligente”, ricercata, sperimentale, d’avanguardia. Nel disco comparivano elementi di primissimo ordine a partire da The Dice Man (nome dietro cui si mascherava Richard D. James) e Speedy J per finire con B-12 e Autechre, progetto nato in Inghilterra dalle menti di Rob Brown e Sean Booth e destinato a segnare per sempre la storia della musica elettronica degli anni ’90. Primo, storico passo dell’act di Rochdale fu il full-lenght Incunabula (1993), ipnotico, fascinoso e indimenticabile disco d’esordio in cui l’arte del duo inglese si mostrò in tutta la sua perfezione compositiva e stilistica, rimanendo come una delle opere di spicco dell’ambient-techno e di tutta l’intelligent techno assieme a The Orb’s Adventures in the Ultraword degli Orb, The End of Everything di Moby, The Brown Album degli Orbital, Beacoup Fish degli Underworld, Vulvaland dei Mouse On Mars e Music Has the Right to Children dei Boards Of Canada, altro gruppo di punta della Warp. Sebbene appartenenti allo stesso filone, Autechre e Boards Of Canada procedettero per vie diverse elaborando linguaggi peculiari seppur non sempre riusciti: dopo Incunabula, Brown e Booth riuscirono addirittura ad entrare nelle chart britanniche con i successivi Tri Repetae, Chiastic Slide, LP5 e Confield, senza però essere in grado di avvicinarsi minimamente allo splendore evocativo del capolavoro del 1993: col sopraggiungere del nuovo millennio gli Autechre cominceranno a crollare lentamente, perdendo verve e ispirazione negli ultimi Untilted e Quaristice. Sempre più lontani dall’IDM più cerebrale e violenta, i Boards Of Canada si introdussero invece in territori sintetici molto più leggeri, coniando un linguaggio sognante, ipnotico e per certi versi naturalistico documentato dal sopracitato gioiello e dai successivi In a Beautiful Place Out in the Country e Geogaddi, testimonianze di uno stile libero e dalle non poche sfumature emotive che rimarrà caratteristico dell’innovativo act britannico.
Intelligenti si, ma non facenti parte del nucleo storico dell’IDM, Metthew Herbert, Mike Paradinas e Luke Vibertsono stati altri personaggi in grado di attraversare lo scenario elettronico degli anni ’90 in maniera piuttosto trasversale, dandone interpretazioni originali e spesso ammalianti. Partendo con la passione per il jazz e per sperimentazioni concrete e aleatorie di cageiana memoria per poi aprirsi gradualmente alle tendenze sintetiche moderne, Metthew Herbert è diventato un geniale tecnico elettronico nascosto dietro progetti sperimentali all’insegna di una ricerca sonora piuttosto colta e, come nei casi dei primi lavori, strettamente collegata ai deliri elettroacustici degli anni ‘60; ma allo stesso tempo Herbert è stato uno dei principali divulgatori della microhouse, diventando un punto di riferimento per tutto l’ambiente elettronico più minimalista e ricercato (senza contare anche le collaborazioni con nomi illustri del pop e del rock che lo hanno visto ultimamente protagonista).
Mike Paradinas – conosciuto ai più come µ-Ziq – è stato un altro celebre caso di assoluta versatilità stilistica e compositiva, avendo abbracciato lungo l’arco della propria lunghissima carriera jazz, IDM, funk, ambient e breakcore. Un linguaggio estremamente eterogeneo e variegato quello di Paradinas, in grado di spaziare senza difficoltà dai più classici moduli dell’IDM per poi aprirsi a sfuriate drill’n’bass (Lunatic Harness), dilatazioni cosmiche retrò (Royal Astronomy) e trascinante dubstep (Duntisbourne Abbots Soulmate Devastation Technique). Messosi discograficamente in proprio con la nascita dell’etichetta Planet Mu, Paradinas non ha perso tempo nel mettere sotto contratto l’amico e collaboratore Luke Vibert, altro esponente di un’elettronica sfacciatamente moderna e in grado di abbinare alla perfezione ricerca sperimentale e easylistening (indimenticabile il mix retrò-futurista del gioiello Big Soup, tra i simboli più evidenti del suo sound luccicante, spesso sfarzoso ma – quasi –  sempre convincente). Interessante anche il contributo apportato all’ambiente elettronico novantiano dai Lamb, formazione britannica esplosa nel 2001 grazie al successo del singolo Gabriel ma attiva sin dal 1996 grazie alla pubblicazione dell’omonimo esordio, fascinoso concentrato di trip hop, breakbeat, jungle, d&b e pop che si evolverà nei successivi album in un linguaggio sempre più semplice ed orecchiabile.
Ma gli anni ’90 corrispondono anche al periodo-apice di un’altra artista imprescindibile per tutto lo scenario sperimentale europeo: Björk, la gelida musa islandese, il genio che ha aperto il cantautorato all’elettronica e viceversa, rendendo la propria musica un’arte semplicemente inimitabile per originalità e profondità espressiva. Cresciuta sin dalla fine dei ‘70s a suon di post-punk (l’Islanda, stranamente, fu uno dei paesi europei ‘minori’ maggiormente segnati dalle esperienze wave) e giunta al successo grazie all’avventura con i The Sugarcubes, Björk è diventata col tempo uno dei punti di riferimento per tutto l’universo pop più ricercato e d’avanguardia. Espandendo il proprio cantautorato profondo e atmosferico a soluzioni elettroniche, trip-hop, dance e jazz, la compositrice islandese ha donato al pubblico mondiale una serie di gioielli indimenticabili (Post, Debut e Homogenic su tutti) che hanno fatto letteralmente breccia nei cuori tanto degli ascoltatori più pop-oriented quanto di quelli più ricercati.



 
Prodigy




Nel frattempo, mentre a trasportare sempre più in alto l’elettronica erano i singoli artisti piuttosto che intere correnti, nell’underground inglese degli anni ’90 cominciavano a ribollire le grida di una sottocultura febbrile e stufa dell’avanzata del brit pop e dell’elettronica più soft e da ‘aperitivo’. Questa noia si tramutò ben presto in una nuova tendenza sintetica che di lì a pochi anni si imporrà in tutta Europa come antagonista tanto dell’elettronica da classifica quanto di quella più cerebrale e intellettuale: nasceva il cosiddetto Big Beat, ovvero un concentrato di hip-hop, breakbeat, voci punk, techno, industrial e loop e remix di brani anni ’60-’70-’80; paradigma di questa nuova corrente era infatti il sampling, già abusato per questi fini da hip-hop e d&b e ormai diventato parte integrante del processo compositivo. L’Inghilterra voleva ballare ma ne aveva abbastanza di house, chill out e fighettate simili: l’uno dopo l’altro vennero fuori dal sottosuolo britannico Fatboy Slim (già attivo dal 1981 ma esploso solo nel 1996 con Better Living Through Chemistry e nel 1998 col triplo disco di platino You’ve Come a Long Way, Baby), The Chemical Brothers (partiti col big beat di Exit Planet Dust del 1995 e poi sempre più proiettati verso l’acid house e la dance), The Prodigy (che, fondendo breakbeat, techno, rave e industrial scrissero nel 1997 uno dei capolavori del genere, The Fat of the Land), The Propellerheads (esplosi nel ’98 con Decksandrumsandrockandroll), Apollo 440 (grande mix di elettronica, rock e big beat incastonato nei due dischi di maggior succeso, Electro Glide in Blue del 1997 e Gettin’ High on Your Own Supplì del 1999) e Groove Armada (i più ‘puliti’ e mainstream dei movimento), a cui vanno ad aggiungersi gli americani The Crystal Method, altro nome di punta della scena grazie al celeberrimo Vegas del 1998.





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