Voto: 
6.5 / 10
Autore: 
Matthias Stepancich
Genere: 
Etichetta: 
Immortal/Epic
Anno: 
2003
Line-Up: 

- Jonathan Davis - voce, cornamuse
- Head - chitarra
- Munky - chitarra
- Fieldy - basso
- David Silveria - batteria

Guest:
- Nas - voce
 

Tracklist: 

1. Right Now (03:10)
2. Break Some Off (02:35)
3. Counting on Me (04:49)
4. Here It Comes Again (03:33)
5. Deep Inside (02:46)
6. Did My Time (04:04)
7. Everything I've Known (03:34)
8. Play Me (03:21)
9. Alive (04:30)
10. Let's Do This Now (03:18)
11. I'm Done (03:23)
12. Y'All Want a Single (03:17)
13. When Will This End [+ One] (14:23)

Korn

Take a Look in the Mirror

Dopo la produzione high-budget di Untouchables, album che non vende quanto aspettato pur essendo un lavoro indubbiamente riuscito, i Korn sentono il bisogno di un ridimensionamento nei costi e nelle ambizioni; inoltre, nel 2003 il cosiddetto nu-metal (filone di cui sono riconosciuti come i padri fondatori), ormai da qualche anno (dal 2000 circa, per la precisione) ha creato un fenomeno deplorevole: la nascita di decine di gruppi che artisticamente non hanno assolutamente nulla da dire, i cui continui ricicli di stilemi altrui in chiave mainstream hanno portato l'intera scena nel baratro. La band decide dunque, contemporaneamente e specularmente alla svolta dei Deftones con il loro disco omonimo, di tornare al proprio passato, di ricercare la propria identità "guardando nello specchio"; ecco dunque perché nasce un disco come Take a Look in the Mirror (Immortal/Epic, 2003).
Ma, se i Deftones intercettano abbastanza i gusti del pubblico e soprattutto un sound piuttosto "attuale", i Korn tornano fondamentalmente a ribadire cose già dette e ormai da altri abusate, senza oltretutto riuscire a replicare la stessa dose di angoscia e profondità psicologica dei dischi precedenti.

Play Me è sicuramente una buona traccia di rap-metal (al microfono c'è infatti Nas, rapper tra l'altro estimatore della band), ma serve ancora scrivere canzoni del genere 5 anni dopo Follow the Leader?
Alive è coinvolgente, ma è stata ripescata direttamente dalle prime sessioni del gruppo, ed infatti suona come il loro debut album, non aggiungendovi niente di nuovo.
Mancano idee anche in Y'All Want a Single (che appare falsa nel suo denunciare il mercato discografico, viste le passate vendite stratosferiche della band, ed inoltre, dopo un incipit che sembra tradire grandi sviluppi, in realtà risulta ripetitiva al limite della noia), I'm Done e Let's Do This Now (le quali si riciclano continuamente in una spirale di rabbia ridondante che non trova mai la giusta esplosione).
Tuttavia sono presenti anche degli episodi freschi e godibili: Did My Time è probabilmente il capolavoro del disco, dalle memorabili melodie furiose ma studiate, così come anche Deep Inside. Non è un caso che, difatti, siano entrambe degli out-takes dal precedente Untouchables. Entrambe si vanno a collocare tra i migliori pezzi di sempre della band.
Un'altra traccia decisamente riuscita è la conclusiva When Will This End, al termine della quale è presente un lungo silenzio che anticipa una notevole cover di One dei Metallica (registrata dal vivo in occasione del programma televisivo MTV Icon Metallica).
Dei restanti pezzi sono apprezzabili la violenza schizoide e paranoica di Right Now (fatta singolo, e promossa con un disturbante video degno di nota), il singolo catchy Everything I've Known, la furia cieca alla Pantera di Break Some Off, la pesantezza tetra di Counting on Me, e i giochi melodici tra chitarra e voce di Here It Comes Again.

Ma, nel suo complesso, l'album non convince né la critica né i fan, ed è facile capirne i motivi: innanzitutto si regge su poche idee, che pretendono di venire compensate da una violenza sonora ed una furia metal molto più dure anche a confronto degli esordi, sfiorando il death-metal sia in alcuni riff sia nella voce di Davis (il quale non ha mai urlato in maniera così feroce, spaziando dal growl più truce alle distorsioni digitali, quasi nella necessità di negare con disprezzo le melodie studiate e ragionate dei due album precedenti).
E, sebbene il basso di Fieldy convinca sempre (tornando a slappare furioso come nei primi tre dischi), la batteria di Silveria sembra purtroppo un giocattolo, dato che suona come una drum-machine priva di mordace e personalità; tutto ciò è evidentemente colpa della produzione, visto che, per contro alle fastose produzioni di Untouchables, il quintetto ha stavolta registrato tutti i pezzi nello studio casalingo di Davis.
Un inaspettato tonfo per una band che ha saputo rinnovarsi di album in album mettendo a segno una serie di ottimi colpi, risultando continuamente uno dei punti di riferimento per il sound della propria epoca.
C'è di buono che l'insoddisfazione da parte dei fan di vecchia data, che aspettavano con ansia questo "ritorno alle origini" e ne sono rimasti delusi, ha spinto gli stessi a rivalutare ed apprezzare i due album precedenti.

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