Obituary
23/01/2006 - Rolling Stone - Milano

Ritornano, in un feddo lunedi milanese, a distanza di pochi mesi dalla loro ultima esibizione al Gods Of Metal, la premiata ditta Obituary. La band floridiana in grande rispolvero da vita ad un'ottima esibizione, supportata da Samael e Maroon, e dove protagonista è il loro ultimo lavoro, Frozen In Time


Inizia bene il nuovo anno per tutti gli amanti del vero Death Metal old-school: infatti, per la terza volta in poco più di dodici mesi, gli Obituary ritornano nel nostro Paese più agguerriti che mai e pronti a farci saltare di nuovo i timpani. Come ormai sempre più spesso succede, l’appuntamento è al Rolling Stone di Milano in un lunedì sera cupo e sferzato da un vento ghiacciato e fastidioso. L’apertura puntuale dei cancelli, prevista per le 19.00, fa radunare fuori dall’uscita poche decine di fan, che piano piano nel corso della serata aumenteranno esponenzialmente. Un’altra caratteristica che sembra stia diventando consuetudine in Italia riguarda la varietà dei generi che in ogni data vengono proposti: non ci è dato sapere se per una questione di etichetta, oppure semplicemente di comodità, fatto sta che al fianco della band floridiana si alternano sul palco in ordine Maroon e Samael, che col Death Metal e la Florida hanno ben poco a che fare.

Quindi, al pari di un orologio svizzero, alle 19.30 si aprono le danze e tocca ai tedeschi Maroon smuovere un po’ i pochi metallari presenti. Con già due album alle spalle e uno in uscita, il giovane combo propone un metal-thrash core di forte impatto e che deve sicuramente qualcosa ai cugini danesi Hatesphere. I suoni sono molti buoni per essere la band di apertura, anche se a volte un po’ troppo impastati, e i giovani teutonici ce la mettono proprio tutta per scatenare un pubblico eccessivamente freddo. Ovviamente, come c’era da aspettarselo, nulla di nuovo dal fronte: insomma i soliti riff triti e ritriti che ci siamo quasi stufati di ascoltare. Ma l’energia che i Maroon sprigionano basta soltanto a promuoverli con la sufficienza piena. Un buon inizio.




Dopo circa una ventina di minuti di soundcheck, fanno la loro comparsa on stage gli svizzeri Samael: devo essere sincero, non avevo mai ascoltato nulla di questa band e questo mi ha spiazzato abbastanza durante il loro show (durato quasi un’ora), ma allo stesso tempo mi ha anche fatto piacere scoprire un gruppo tanto particolare. Perché particolare? Ebbene i Nostri si presentano senza batteria e con il tastierista Xy occupato anche a controllare la drum machine. Senza contare che il loro industrial-electro-black metal (termine coniato da me, ma non saprei proprio in che altro modo definirli – n.d.a.) è una delle proposte più eclettiche mai sentite negli ultimi anni. Tra mid-tempos e campionamenti vari, i Samael riescono appieno nell’ingrato compito di dividere il pubblico a metà: la loro esibizione inalza cori di insulti da parte dei deathsters più incalliti e grida di lode da parte di chi è venuto solo per loro. Tralasciando queste questioni, rimane però una prova ottima dal quartetto svizzero: uno show condito con una buona dose di teatralità, ottimamente condotto dal chitarrista-cantante Vorph, senza sbavature e abbastanza coinvolgente. Purtroppo però, la difficile musica dei Samael ha alternato troppo spesso, soprattutto nella prima parte, momenti ricchi di pathos ad altri particolarmente noiosi, senza contare che la mancanza di un vero batterista a volte si è fatta sentire. Anche loro, comunque promossi a pieni voti, sicuramente non hanno potuto essere apprezzati nella giusta maniera a causa di un pubblico impreparato. Da scoprire con calma.



Sono quasi le 21.30 quando il piatto forte della serata sta per essere servito. Breve suondcheck e le luci si spengono. Il buio del locale milanese viene squarciato da un finto lampo che illumina il palco e fa aumentare la tensione dei presenti. Tutto è pronto, l’atmosfera è quella giusta e quando le luci si riaccendono, illuminando lo stage e mostrando il gruppo, il Rolling Stone si trasforma in una bolgia. In una forma smagliante e stupefacente, gli Obituary letteralmente distruggono tutto quello che incontrano. Dopo l’intro strumentale Redneck Stomp, la stessa di Frozen In Time, ultima fatica della band dopo otto anni di inattività, sbuca sul palco l’ultimo componente mancate: le grida aumentano e quando il rosso cantante urla nel microfono sulle note di On The Floor, il pubblico copre ogni suono. Lui, John Tardy, è sempre un animale da palco, un piacere per gli occhi e le orecchie, potente e chirurgico. I cinque floridiani sembrano aver fatto tesoro di questo ultimo anno di tour, perdendo un po’ di quella ruggine che li aveva costretti, nelle date di Reggio Emilia e del Gods Of Metal, ad esibizioni al di sotto della media. Così, Frozen In Time viene derubato quasi in toto: non solo le due canzoni citate prima, ma anche Insane, Back Inside, Slow Death, Stand Alone e Lockjaw (con tanto di assolo di Donald Tardy). Un’esibizione veramente perfetta e coinvolgente, che ci riconsegna un gruppo affiatato e pronto a ritornare protagonista. Nell’ora e un quarto messa a loro a disposizione, gli Obituary ci deliziano con una serie di pezzi proveniente dalla storia della band: ci sono Chopped In Half e Dying presi da Cause Of Death, Threatning Skies da Back From The Dead e c’è pure spazio per Kill For Me e Solid State (da World Demise), dove il buon vecchio Donald viene aiutato da un percussionista per ricreare quell’atmosfera tribale presente su disco. A dir la verità la brevità dell’esibizione (qualche pezzo in più non sarebbe stato male) e un pochino di freddezza tra un pezzo e l’altro sono delle piccole pecche, che però non rovinano il prodotto finale. Ovviamente, come da tradizione, si chiude con la vera e propria bandiera del gruppo: quella Slowly We Rot, targata 1989, che genera un vero e proprio massacro tra le prime file sotto il palco. A seguire saluti e lancio di bacchette/plettri.

In conclusione una gran bella serata, con gruppi veramente validi, anche se forse troppo distanti come generi. Fa piacere ritrovare gli Obituary in questo stato di forma: i suoni potenti e puliti gli hanno permesso di portare avanti uno show senza macchie, esibendosi come se avessero ancora vent’anni e facendo divertire il pubblico. Quindi non resta che dire addio ai cinque ragazzi di Tampa ed aspettare con trepidazione la loro prossima data in terra italica. Ovviamente in quel del Rolling Stone, pronto ormai a prendere in mano il monopolio dello spettacolo rock a Milano.

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