Voto: 
7.7 / 10
Autore: 
Gabriele Bartolini
Genere: 
Etichetta: 
Fat Possum
Anno: 
2011
Line-Up: 

- Daniel Blumberg - Voce, chitarra
- Max Bloom - Voce, chitarra
- Mariko Doi - Basso
- Jonny Rogof - Batteria

Tracklist: 

1. Get Away
2. The Wall
3. Shook Down
4. Holing Out
5. Suicide Policeman
6. Georgia
7. Suck
8. Stutter
9. Operation
10. Sunday
11. Rose Gives A Lilly
12. Rubber

Yuck

Yuck

''Try to make it trough the wall  try to make it trough the wall / You can see if you're tall you can see me if you're tall''.

Yuck
è uno dei nomi più gettonati di questo inizio 2011. Il gruppo londinese formato da quattro componenti ha infatti ricevuto elogi dalle testate giornalistiche online a non finire, venendo paragonati a svariati gruppi da una stampa forse mai così adulatrice nei confronti di una band al debutto. Attivi già dal 2010 quando incisero un vinile con due potenziali successi facenti parte anche di questo album, gli Yuck vantano tra le loro fila due membri - precisamente il cantante Daniel Blumberg e il bassista Max Bloom - dei Cajun Dance Party, gruppo indie rock che con l' album The Colourful Life non ottenne grandi favori, e nemmeno un grande consenso del sempre affamato popolo 'indie'. In effetti le nove tracce (più due bonus track) che andavano a costituire l'album non hanno dimostrato grandi spunti; neanche i singoli di punta The Race e The Next Untouchable hanno fatto intravedere idee originali. Il movimento di rinascita della musica ''rumorosa'' in gran parte Lo-fi spinge quindi due dei suoi membri a cercare fortune con altri espedienti; nascono gli Yuck. Sperando che l'onomatopea di disgusto che il nome evoca non mi accompagni nell' ascolto del disco, partono le prime tracce.

Dotato di una copertina disegnata a mano, l'album in questione suona come qualcosa di vecchio e ruvido; di buon auspicio pure la sicurezza dei dodici brani, che sembrano seguire tutti una direzione diversa, bussando a turno alla porta di vecchie certezze ai cui sembra inevitabile un riferimento. Get Away sembra, ad esempio, una canzone di Stephen Malkmus mai incisa con i suoi Pavement. Non si poteva chiedere di meglio a questa opener; le chitarre sono tese come le corde vocali del cantante, mentre il basso, in attesa del ritornello, si fa sentire. Parte The Wall, ritmo blando accentuato all'inizio e nel finale, dove le chitarre si esprimono al meglio e la voce trova ampi spazi con un testo dai toni ironici. Successivamente Shook Down porta con se una ventata di folk-rock romantico interrotta dalle distorsioni di una chitarra che porta la voce a ripetere un ritornello scontato ma efficace (''You can be my destiny / You can mean that much to me'').
La traccia preventivamente resa disponibile su iTunes, Holing Out, presenta le caratteristiche sopra citate, con un pizzico in più di velocità nel ritornello e maggiore verve esecutiva. Bella Suicide Policeman, canzone da Cajun Dance Party improvvisamente presi a cercare parole buone per tre minuti di onesto cantautorato; il suono qui non viene in alcun modo sporcato anzi, le trombe in chiusura rendono il suono più popolare, addirittura, un pezzo di rottura che riesce perfettamente nell' intento di far prendere una pausa a questa sorta di galoppata da una traccia all' altra. Georgia presenta un tiro decisamente più pimpante venendo eletta all'unanimità come il brano più catchy del disco, dove il tamburello alza il ritmo e le chitarre sono a prova di amplificatore. I cori che si interpongono alla musica appaiono come un incrocio tra Best Coast e Crocodiles, dunque tra la California più fresca e pop del momento e i pezzi aggressivi di un gruppo che fonde in maniera unica testi da Oasis in depressione e sfuriate rock riconducibili al garage.

''Everybody makes love in her own way'': Suck, traccia successiva, è invece ingenua quanto basta per colpire al cuore, che viene riscaldato anche grazie alle chitarre dai toni all'apparenza southern, almeno in apertura. Stutter segue in tutto e per tutto la falsariga della traccia precedente, mostrandosi come l' unica incognita in un disco fino a questo punto senza sbavature. Meno male che Operation con la chitarra in apertura ci sveglia dal torpore di un sogno sicuramente meno interessante della realtà: le chitarre alla Dinosaur Jr. sono manna per le orecchie. Funziona anche il testo da parrocchia di Sunday, nostalgica canzone che presenta più di un' affinità con gli R.E.M. di inizi anni '90.
Dopo un'impalpabile traccia strumentale (Rose gives a Lilly), arriva l'ambizioso outro. Il ritmo iniziale è solenne e poderoso; tirato fino allo sfinimento, il pezzo assomiglia molto ad una suite random degli Yo La Tengo, fautori di chiusure record negli album meno folk e con il bassista attuale.

Tirando una somma dopo che le dodici tracce si sono concluse, bisogna sottolineare l'eccellenza del disco. Molti fattori infatti portano a trarre delle conclusioni più che positive. Ma, volendo insistere, in primis ci sono l'energia espressa e l'abilità nel comporre certi tipi di pezzi che testimoniano l'amore sconfinato verso la musica underground, quell'indie-rock americano vera e propria fabbrica sforna star, qualcuna citata in questo testo e molte altre non nominate, che del mainstream potevano fare sicuramente a meno. Un ritorno al passato, una testimonianza che certifica il fatto che c'è ancora qualcuno nel 2011 che crede in ciò che suona. E quando c'è passione in quello che si fa, ogni tecnicismo salta e la musica, invece, rimane: passate attraverso il muro e ascoltate.

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