Voto: 
5.4 / 10
Autore: 
Gabriele Bartolini
Etichetta: 
Secretly Canadian
Anno: 
2011
Line-Up: 

-Robbie Bennett - Arpa Omni, chitarra acustica, piano
-Adam Granduciel - Compositore, produttore, voce
-Dave Hartley - Basso, batteria, Electric Autoharp, Fender Stratocaster, Chitarra acustica, chitarra elettrica
-Steven Urgo - Batteria

Tracklist: 

01. Best Night

02. Brothers

03. I Was There

04. Your Love Is Calling My Name

05. The Animator

06. Come to the City

07. Come for It

08. It's Your Destiny

09. City Reprise #12

10. Baby Missiles

11. Original Slave

12. Black Water Falls

War on Drugs, The

Slave Ambient

I The War on Drugs sono una band californiana con base ad Oakland che per i primi sprazzi di carriera ( iniziata nel 2005 con un demo) si è contraddistinta più per i tormentati rapporti tra i vari membri e continui cambi di line-up - basti pensare che i musicisti originali hanno lasciato il posto a quattro componenti nuovi - che per gli effettivi valori musicali. A tal punto che i tanto abusati paragoni con Buffalo Springfield, Byrds e Fleet Foxes essenzialmente nascono e finiscono subito per un motivo che, se non valido, è senza dubbio essenziale: i War on Drugs non hanno mai inciso un capolavoro. Ed anzi, se sono riusciti a riscuotere un discreto seguito di ammiratori solo dopo sei anni con questo nuovo Slave Ambient - che a questo punto potremo pure considerare come loro vero e proprio esordio - un motivo ci sarà. I problemi si potrebbero pure fermare qui per il gruppo, non fosse che il fuoriuscito e fondatore Kurt Vile mesi prima ha pubblicato il suo quarto album solista, Smoke Ring for My Halo, un esplosione di cantautorato tormentato su base roots americana ed una buona dose di psych-folk.

Per l' appunto, anche Adam Granduciel, volto dei War on Drugs ed amico / nemico di Kurt Vile, imposta Slave Ambient come un' opera di americana influenzata stavolta da uno shoegaze che, con i giusti ridimensionamenti, potrebbe far pensare ad una versione pop, o comunque solare ed estatica, dei My Bloody Valentine. Peccato soltanto che, paragoni a parte, questi veri e propri anthem di leggerezza risultino poveri e monocordi, e guarda caso sorretti più volte da evidentissimi imandi ai compendi di folk canadese dettati dalla sempre verde matrice suburbiana di Arcade Fire, oppure dal rock da  classe operaia di Springsteen. Le varianti includono  dei sinth dal gusto minimale che invece di far trasmigrare l' ascoltatore nelle lande dell' astrattismo lo fanno solamente assopire, oltre al timbro vocale di Dylan che pervade i pezzi migliori ( dalla line-up si scoprirà essere lo stesso Granduciel) e fa dell' arte già di per sè confusionaria dei War on Drugs qualcosa di derivativo capace solamente di far sobbalzare a sprazzi per i flashback emotivi evocati. Ma i veri problemi dei War on Drugs sono evidenziati ( credo, spero non spontaneamente) bene nei brani, dei quali la quasi totalità è composta da strumentali da sottofondo buoni solo per un ascolto distratto, mentre a far da contorno sono quei tre brani che avrebbero fatto gridare al miracolo se racchiusi in un uscita come l' EP. Per essere più precisi, i War on Drugs lucrano come meglio non potrebbero sul momento di massimo parossismo, facendo seguire in coda tre brani a far da cuscinetto, quasi non volessero far scendere a paragoni l' album con l' unico picco di freschezza e qualità compositiva. Sto parlando ovviamente di Your Love is Calling my Name, una scorrazzata percussiva di sei minuti in cui la voce del figlio di Guthrie accarezza gentilmente l' altrettanto elegante aere new wave, trasformandosi negli ultimi minuti in un compendio improvvisato di notevole fattura. Senza mettere i bastoni tra le ruote a nessuno, è altrettanto palese che le successive The Animator, Come to the City e Come for It, trittico che a malapena riesce a superare il minutaggio della traccia precedente, risultino totalmente fuori luogo nel tentativo di dilatare ed accentuare questa tematica shoegazy, che invece viene solo strapazzata e spremuta fino all' osso per produrre solamente un mood assonnato e borioso. Il resto del lavoro si manterrà su binari mediocri, incanalando prima il sentiero del semplice folk-rock e finendo col tributare gli Stephen Malkmus and The Jicks, e dopo plagiando, letteralmente, il gruppo di Win Butler, risultando cinici quando le cose si mettono bene ( Baby Missiles) ma decisamente patetici quando le melodie vengono riprese per filo e per segno ( Original Slave, Best Night). Di spessore e degna di nota Brothers, capace di notevoli scambi di chitarre e rullate al limite dell' evanescente, soltanto gradevoli l' armonica e piano di I Was There e la conclusiva Blackwater.

In generale, l' impianto di Slave Ambient non solo risente di una timidezza in fatto di consistenza vocale e testi ( nella maggior parte dei casi), ma soprattutto non riesce a risultare personale ed intimista quanto basta per essere degno del paragone con Smoke Ring for My Halo. A differenza di Kurt Vile - Presente nel disco in un paio di brani in veste di chitarrista - si ha la sensazione che i War on Drugs sfruttino in maniera eccessivamente ruffiana il lato nostalgico della cosa, approfittando di questa attenzione ricevuta per rivomitarci con delicatezza una psichedelia filtrata che nonostante tutti gli orpelli di inconsistenza risulta alla fine persino un pò pesante. Sconclusionati.

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