Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Etichetta: 
Kscope
Anno: 
2011
Line-Up: 

Krystoffer Rygg - voce, sintetizzatore, programmazione, produzione
Tore Ylwizaker - tastiere, programmazione, produzione
Jørn H. Sværen - percussioni

Ospiti:
Daniel O'Sullivan - chitarra, basso, produzione, missaggio
Tomas Pettersen - batteria
Ole Aleksander Halstensgård - elettronica
Trond Mjøen - chitarra elettrica (1,4), basso (3,4), chitarra acustica (6)
Stian Westerhus - chitarre (2,3,6,7)
Daniel Quill - violino (2,3,5)
Alex Ward - clarinetto (2,3)
Steve Noble - batteria, percussioni (2,7)
Attila Csihar - voce (3)
Siri Stranger - voce (3)
Emil Huemer - guitar (4)
Anders Møller - percussion (6)
Stephen Thrower - clarinetto (7)

Tracklist: 

1. February MMX – 4:11
2. Norwegian Gothic – 3:37
3. Providence – 8:10
4. September IV – 4:39
5. England – 4:09
6. Island – 5:47
7. Stone Angels – 14:56

Ulver

Wars of the Roses

I Lupi sono tornati.
Rapidamente diventati un fenomeno di culto nel corso dell'ultimo decennio per via delle loro sperimentazioni sonore e del loro continuo navigare fra i generi, anche se a volte risultando un po' troppo esageratamente elogiati, gli Ulver tornano a far parlare di loro a quattro anni dal precedente album con un recap delle precedenti esperienze musicali, un lavoro di sintesi che ricollega idealmente fra loro quanto già consolidato dopo l'esperienza di Perdition City e ne reinterpreta le forme privilegiando soluzioni sonore più dirette e accessibili, senza però mai tradire la forte carica psicologica, l'atmosfericità introspettiva e il pathos che caratterizzano ormai le composizioni di Krystoffer "Garm" Rygg e soci.
In questo Wars of the Roses possiamo infatti trovare innanzitutto la forte vena atmosferica e ambient di Shadows of the Sun, con un occhio di riguardo soprattutto alle linee vocali calde e avvolgenti, ma attenuandone la dimensione mistica/spirituale in favore di un approccio più cupo e urbano maggiormente vicino ai minimalismi di Teachings in Silence (e volendo al mood di Perdition City); le intense e taglienti strutture avant-rock di Blood Inside, tuttavia diluite in uno scenario molto meno psicologicamente teso, più melodico e intimista; e gli intrecci elettronici incisivi di A Quick Fix of Melancholy. Si possono quindi trovare mescolati tenui malinconie dipinte da pianoforti da musica da camera come nell'ultimo album, ma abbinate a qualche piccolo spruzzo minimale degli EP di qualche anno fa, seguite da fraseggi più d'impatto con tipica strumentazione rock quando per esempio subentra la batteria.
In questo processo di rielaborazione si intravede una qualche vena di "dark psichedelico", probabilmente dovuta anche alla presenza fra gli ospiti di Stephen Thrower dei Coil e di Daniel O' Sullivan degli Æthenor (quest'ultimo ricambiando quanto già fatto dallo stesso Garm), ma il tutto in realtà è funzionale all'esaltazione della carica emotiva costituita dal binomio fra la calda voce di Garm e le intessiture sonore di sfondo.
L'approccio degli Ulver si fa molto certosino nella produzione e negli arrangiamenti, privilegiando soprattutto il lato vocale con molta rifinitura nelle linee adottate da Garm, aggiungendovi stratificazioni, effettistica e partecipazioni in duetto. La voce di Rygg, per via del suo timbro morbido e avvolgende, si adatta alla perfezione alle atmosfere del disco, ma purtroppo le sue capacità espressive vengono appiattite, suonando sempre un po' monotone.

L'iniziale February MMX è un brano d'apertura atipico per gli Ulver, un brano relativamente catchy e scorribile, anche se non intrigante quanto cerca d'essere, dove una batteria spedita fa da sostegno a riverberi elettronici acidi, costruzioni sonore quasi progressive ed un'immediatezza di fondo palpabile con mano. La traccia si fa inoltre leggermente più psichedelica man mano che ci si avvicina alla conclusione, per via dell'irruenza della sezione ritmica e della lisergicità degli intrecci di tastiere in sottofondo.
Norwegian Gothic invece sembra un convenzionale brano dark ambient, con elementi da chamber music a rendere il tutto più cupo (e manierista), a catturare l'attenzione è come al solito l'atmosfera fortemente suggestiva ricreata dal gruppo, in particolare l'interpretazione al tempo stesso fredda e calda, cioè fortemente vissuta ma cinicamente distaccata, di Garm balena nell'oscurità spettrale della canzone.
La notturna Providence invece è più dolente e malinconica, un duetto al pianoforte con la dolce voce femminile di Siri Stranger, dopo un po' interrotta bruscamente da una sezione centrale spiazzante: batteria incessante e inquietante, sassofono corrosivo, riempimenti tastieristici che catalizzano un'aura psych-goth, un crescendo progressivo di tensione che sembra stia per esplodere da un momento all'altro... fino ad una lunga e piattina chiusura dark ambient.
Suona molto più dolcemente intimista September IV, con batteria cadenzata a cullare le consuete linee vocali soffuse, ma da placida ballata il registro si fa più alienante, di nuovo la sezione centrale esplode, questa volta in un psych-rock schizoide e spaziale che lascia tutto bruciato.
L'elemento psichedelico si fa più diradato in Island, dove funge da contorno all'anima dark ambient per traslarne l'oscurità, perché per rappresentare le angoscie o le paure dell'animo umano, più che dipingere dall'esterno scenari claustrofobici o tenebrosi, si orienta invece a esaltarne la carica introspettiva, l'immagine dei cupi meandri della mente, le visioni più interiorizzate.
Anche England segue quest'approccio, in realtà iniziando più canonicamente con dei canti liturgici che ricreano una sensazione di sepolcralità, ma lasciando poi spazio a cupi droni elettronici e alla batteria inesorabile che rendono tutto ancora più straniante e in definitiva straziante.
Infine abbiamo Stone Angels, lunga e lenta marcia funebre ambient (dai toni vicini a una Not Saved) che si sviluppa in maniera sempre più onirica e spirituale.

Se c'è qualcosa che manca più di tutto al disco, è la capacità che hanno avuto sino ad ora i norvegesi di spiazzare, sorprendere con soluzioni che non ci si aspettava, cambi di tempo, novità stilistiche e giochi atmosferici per loro inediti.
Al contrario, Wars of the Roses scorre molto più linearmente, a tratti sembrando anche prevedibile, e questo mina anche la longevità del disco che tende a coinvolgere molto meno che in passato. Gli Ulver privilegiano l'enfasi sul lato vocale e sulle emozioni rarefatte (nel senso di maggiormente ermetiche e intimiste, non di meno sentite o catatoniche), gravitando sempre attorno alla figura centrale di Garm e giocando a interiorizzare melodie dark, che siano più ambientali, più dissonanti oppure più "pop/rock" come nell'opening.
Un disco che deluderà chi si aspettava il guizzo di genio o l'ennesimo cambio di rotta, ma che di per sè si lascia ascoltare godibilmente e ci mostra ancora il lato più morbido e avvolgente dei norvegesi anche nei momenti più "duri" e oscuri.

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