Voto: 
7.2 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Etichetta: 
Listenable Records/Audioglobe
Anno: 
2008
Line-Up: 

:
- Jochem Jacobs - chitarra, voce secondaria, produzione
- Stef Broks - batteria, percussioni
- Remko Tielemans - basso
- Bart Hennephof - chitarra
- Eric Kalsbeek - voce
- Richard Rietdijk - tastiera, sintetizzatore

Tracklist: 

:
1. Old Days Born Anew
2. The Sun's Architect
3. Awake
4. Laments of an Icarus
5. One Eye for a Thousand
6. State of Disobedience
7. Storm Warning
8. Messengers
9. To Erase a Lifetime

Textures

Silhouettes

Ritornano i Textures dopo due anni dal loro ultimo appuntamento e con un nuovo cambio nella formazione avvenuto nel frattempo (questa volta è il bassista Dennis Aarts a lasciare, cedendo il posto a Remko Tielemans).
Questi interpreti del panorama post-thrash continuano a mostrare grandi ambizioni e con Silhouettes puntano davvero in alto.
Disco maggiormente rielaborante la contrapposizione fra aperture melodiche e sfuriate più martellanti rispetto al lavoro precedente (di cui comunque espande ed approfondisce il discorso intrapreso), se da un lato c'è stata un'ulteriore evoluzione nella maturità spesa per il songwriting (davvero coinvolgente), dall'altro l'espansione di questo binomio non fa sparire alcuni difetti già incontrati in passato.

Nonostante appaia più consistente e incisivo (diciamo anche "adulto") del suo predecessore, Silhouettes è anche ancora affetto dallo stesso problema di Drawing Circles: è cioè un lavoro potente, dinamico e intrigante, di sicuro impatto, ma che se esteriormente, in generale, appare come un album decisamente ben caratterizzato e pulsante di vitalità, al dettaglio si scopre più un sapiente e certosino intreccio di influenze ben congegnate; in alcuni passaggi unite con più raffinatezza, in altre con meno genuinità.
Non dei geni quindi, nè degli innovatori, i Textures. Semplicemente eccellenti musicisti, abili nell'indovinare la giusta melodia, il riff vincente. Dall'ottimo gusto nello scegliere le sonorità che colorano di volta in volta la loro musica, nel conferire coesione al tutto e infine dotati di una discreta intelligenza compositiva: combinazioni che enfatizzano il loro potenziale come arrangiatori di questo metal cerebrale ma melodico e dal sapore alternativo. Ma privi di quell'estro geniale che fa la differenza.
Dei "rinfrescatori" del metal se rapportati all'oceano sterminato di gruppi clone e/o revivalisti, ma non degli inventori.
Se il riffing ispirato alla prima metà carriera dei Meshuggah risulta ora ben più miscelato e i tempi sincopati danno una parvenza progressiva al gruppo, si fanno anche più evidenti i debiti verso il canadese Devin Townsend (sia musicalmente come negli intermezzi più strumentali/atmosferici che vocalmente) mentre il cantante Eric Kalsbeek continua ad alternare ruggiti stile Bjorn Strid dei Soilwork, urla rocciose a la Jens Kidman, passaggi puliti sempre molto stridiani (oltre che townsendiani), non mostrando una personalità definitivamente propria ma ancora facente il verso a mostri sacri del metal.
E per il resto si amalgamano così refrain che possono ricordare gli Scarve, attacchi quasi da Mnemic, riferimenti al consueto groove thrash se non addirittura elaborazioni quasi metalcore (per la combinazione strutturale di crescendo aggressivi e distensioni melodiche poste su tappeti sonori comunque più rocciosi, non tanto stilisticamente parlando) e persino muri sonori cupi che si potrebbero ricollegare agli Isis, abbattendo diverse barriere musicali.

Il disco parte repentinamente con le distorsioni infuocate di Old Days Born Anew e i suoi ritmi martellanti thrash. Kalsbeek è vocalmente molto in forma, mostrandosi a suo agio sia nel growl/scream che nell'imponente ritornello melodico stile Townsend. Alcune sfuriate di doppia cassa inoltre avvicinano il pezzo ai gruppi thrash/melodeath svedesi.
Le ritmiche tagliate ed aliene di The Sun's Architec riavvicinano a coordinate meshuggahiane, scandite dalle urla disperate di Eric e dalle distorsioni basse e corpose; solo nel breve intermezzo melodico le atmosfere si fanno più distese e malinconiche, seppur vicine ad una cupezza post-industriale che mantiene presente una certa inquietudine di fondo.
Awake inizia come una power-ballad vagamente alla Incubus per poi mutare forma e diventare nettamente più granitica e claustrofobica.
Lament of Icarus mostra un riff principale (che ricorda una versione accelerata di The Mirror dei Dream Theater, se ci consentite) caustico impiantato su di una struttura ossessiva e alienante.
C'è spazio per melodie più orecchiabili in One Eye for a Thousand, ma sotto di esse una magmatica distesa di riff lenti e cadenzati doom metal-oriented genera un contrasto dolceamaro notevolmente corposo, enfatizzato anche dal ruggito dolente di Kalsbeek; fino al consueto ritorno sui binari del disco in generale, poiché la forma-canzone canonica non trova molto spazio nell'album e ogni pezzo si sviluppa in maniera non convenzionale, facendolo con apprezzabile naturalezza.
State of Disobedience mostra addirittura chitarre scanzonatamente catchy, prima del sopraggiungere di refrain schiacciasassi e corrosivi (ma sempre dal piglio trascinante).
Le atmosfere si fanno ancora più cupe e malate con il meccanico industrial/groove thrash di Storm Warning, in cui il chorus melodico appare come un'isola più solare grazie soprattutto all'espressività delle linee vocali, capaci di ribaltare completamente l'aspetto di un pezzo con le loro tonalità, a prescindere dalle linee musicali tracciate dalla strumentazione sottostante - impennate aggressive o mid-tempos sostenuti.
La piacevole Messengers espande inizialmente il lato elettronico/ambient per un pezzo soffuso ed atmosferico, ma anche con timbri in crescendo sempre più cadenzati fino ad un climax emotivo in cui sopraggiungono distorsioni lisergiche e screaming sofferto, quest'ultimo che poi cede il posto a clean vocals solenni e nostalgiche.
Infine concludiamo il disco con To Erase a Lifetime, canzone grintosa e vissuta con alcuni dei riff più catturanti del disco.

Gli olandesi attingono da questo e quell'altro gruppo per ottenere uno stile che, nel complesso, è dotato di un'impronta immediata e felicemente distinguibile dalla massa, ma che nel dettaglio mostra ancora di non aver trovato il quid definitivo per passare da una musica che sia "bianca e nera" ad una che fonda le diverse tendenze in un "grigio", che erediti qualcosa da entrambe, ma non sia una di esse - se ci perdonate la metafora un po' banale. Diciamo che al giorno d'oggi i Textures si ritrovano in una sorta di mezza via fra le due condizioni, soprattutto in confronto all'esordio Polars: che nel prossimo album li vedremo magari raggiungere il traguardo sospirato e la definitiva realizzazione?
In ogni caso, il songwriting è di sicuro impatto e variegato nelle soluzioni che di volta in volta vengono adottate in ciascun pezzo dell'album, si può perciò sperare in un gruppo che risulti a sua volta influente per le formazioni venture, spingendole a non fossilizzarsi in maniera monotona su stilemi spentamente statici e arcaici (come molti gruppi rimasti fermi, per esempio, all'86 o al '91 insistono a ricalcare con la carbonella senza tentare di aggiungervi un briciolo di reinterpretazione personale) ma a sperimentare nuove vie stilistiche. Lasciando ugualmente il segno nel panorama metal odierno, anche se non lo si rivoluziona o innova radicalmente.
 

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