Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Leonardo Di Maio
Etichetta: 
Parlophone/EMI
Anno: 
1988
Line-Up: 
- Lee Harris - drums
- Paul Webb - electric bass guitar
- Tim Friese-Greene - harmonium, piano, organ, guitar
- Mark Hollis - vocals, piano, organ, guitar
- Martin Ditcham - percussion
- Robbie McIntosh - dobro, 12 string guitar
- Mark Feltham - harmonica
- Simon Edwards - Mexican bass
- Danny Thompson - double bass
- Henry Lowther - trumpet
- Nigel Kennedy - violin
- Hugh Davies - shozygs
- Andrew Stowell - bassoon
- Michael Jeans - oboe
- Andrew Marriner - clarinet
- Christopher Hooker - cor anglais
- Choir of Chelmsford Cathedral
Tracklist: 
1. The Rainbow (09:05)
2. Eden (06:37)
3. Desire (07:08)
4. Inheritance (05:16)
5. I Believe in You (06:24)
6. Wealth (06:35)
Talk Talk

Spirit of Eden

I Talk Talk furono protagonisti di una delle più eclatanti carriere in “sordina” di tutta la storia del rock. Non ci sono molti altri precedenti analoghi al loro caso, anzi, forse quasi nessuno. Tipico gruppo new-romantic formato sulla scia dell’ondata synth-pop britannica (che prendeva spunto dalle gesta di gruppi come Orchestral Manouvres In The Dark, Human League e ultimi Ultravox), i Talk Talk si formarono nel 1981 ed esordirono discograficamente l’anno successivo con l’album "The Party’s Over", realizzato in collaborazione con lo stesso produttore degli Human League e dei primi due album dei Duran Duran. Insomma, un tipico prodotto synth-pop dell’epoca, con melodie romantiche di facile presa e arrangiamenti un po’ pomposi con le tastiere in primo piano, esattamente come stavano facendo i coevi Duran Duran. Ma già in quegli anni, i Talk Talk avevano (sia nei videoclip che nelle loro esibizioni live) un approccio assolutamente antispettacolare e per nulla narcisistico, tutto il contrario, insomma, degli atteggiamenti da primedonne di Simon Le Bon e soci. Anche il cantato di Mark Hollis (autore di quasi tutto il loro repertorio, talvolta in collaborazione con il bassista Paul Webb) aveva una sua personale peculiarità, che sembrava quasi cozzare con vocalità impostate e asettiche tipiche del sound plastificato dei gruppi techno-pop e new-wave da classifica.

In Italia ebbero grande riscontro commerciale i due hit tratti da “It’s My Life”, del 1984, ovvero questa stessa title-track e Such a Shame (uno dei capolavori del pop elettronico tutto). Lo posso confermare personalmente in quanto ero all’epoca uno studente liceale e ricordo vivamente l’impatto che ebbero qui quei singoli dei Talk Talk. Nel resto d’Europa, però, riscossero stranamente meno clamori. La personalità timida e introversa di Hollis incominciò a esprimersi al meglio in “The Colour Of Spring” (EMI 1986), che segnò un già parziale abbandono di stilemi commerciali e a dare più spazio a soffusi arrangiamenti acustici, di ascendenza quasi para-jazzistica.

Il vero capolavoro, i Talk Talk lo diedero con Spirit of Eden (EMI 1988), uscio quasi in sordina e lontano ormai da ogni clamore (in tanti li davano già per defunti, dato che la loro fase commerciale si era conclusa da un pezzo). Un disco ignorato da molti all’epoca e riscoperto solo in anni recenti, in pratica dopo l’exploit dello slo-core americano, di cui si parlò anche diffusamente sulle testate specializzate. L’album è effettivamente soprendente. Di “pop” non c’è più neanche un’ombra. Tutto l’andamento (sei lunghi brani costituiscono il disco) è quasi funereo, impalpabile ed etereo. The Rainbow apre magistralmente quest’opera ed è anche il brano più complesso della raccolta. Un jazz/new-age alla Mark Isham si interseca con il soul spirituale del primo Van Morrison (si pensi ad Astral Weeks), accordi celestiali e centellinati di chitarra conducono ad un finale da jam blues-rock. Eden è pure un brano piuttosto elettrico, ma parecchio minimalista nella forma. Desire e Wealth riconducono alla Scuola di Canterbury di quasi vent’anni prima, ma si tratta comunque di due brani piuttosto differenti l’uno dall’altro. Il primo, da un inizio soffuso e minimale, prende maggiore forma armonica nel finale, raggiungendo anche un climax di una certa elettricità, per poi quasi placarsi nel nulla nelle ultime battute finali. Il secondo brano, Wealh, è costituito da pochi accordi di organo, sparuti interventi di chitarra acustica e leggeri fraseggi di contrabbasso. A livello puramente di “canzone”, la migliore è senz’altro Inheritance, che, se fosse stata arrangiata in maniera synth-pop, invece che jazz-rock canterburiano, sarebbe stata uno dei vertici di “It’s My Life” di quattro anni prima. In I Believe in You pare invece di ascoltare un’anticipazione dei Bark Psychosis. Hollis in tutto il disco canta come in trance e il gruppo è in pratica coadiuvato da un ensemble da rock da camera (persino un coro da chiesa prese parte alle registrazioni!).

Anni dopo questo album è stato considerato dai critici come una geniale anticipazione dei gruppi slo-core americani (Codeine, Rex, Low, etc), ma trattasi comunque di uno slo-core con una sensibilità tutta inglese, a dimostrazione che non tutto ciò che proviene dalla vecchia Inghilterra sia roba da buttare. Dopo un secondo e bellissimo disco nel 1991, “Laughing Stock”, i Talk Talk si divisero. Mark Hollis, dopo un buonissimo album solista del 1998, si è praticamente ritirato a vita privata, mentre Paul Webb e Lee Harris daranno vita agli ambientali O’Rang.

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