Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Nuclear Blast
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Björn "Speed" Strid – vocals
- Peter Wichers – electric guitar/lead guitar
- Ola Flink – bass guitar
- Sven Karlsson – electronic keyboard
- Dirk Verbeuren – drum kit
- Sylvain Coudret – electric guitar/rhythm guitar.

Tracklist: 


1. Late for the Kill, Early for the Slaughter
2. Two Lives Worth of Reckoning
3. The Thrill
4. Deliverance Is Mine
5. Night Comes Clean
6. King of the Threshold
7. Let This River Flow
8. Epitome
9. The Akuma Afterglow
10. Enter Dog of Pavlov

Soilwork

The Panic Broadcast

La sensazione generale riguardo l'ultimo album targato Soilwork corrisponde all'antico dilemma: bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?

Quello che gli svedesi hanno fatto con The Panic Broadcast sembra corrispondere ad un recap, in cui portano avanti lo stile consolidato negli ultimi dischi ma al contempo rimiscelano e diluiscono sia ancora maggiori influenze metalcore che spunti più prettamente riconducibili al resto della discografia del gruppo, complice anche il rientro in formazione del chitarrista Peter Wichers (il cui stile contribuisce ad edificare dieci canzoni robuste, aggressive ma sempre molto melodiche) e l'arrivo di Sylvain Coudret dei francesi Scarve al posto dello storico Ola Fenning.
Se il problema di un album come Sworn to a Great Divide era che il trademark Soilwork tendeva troppo a lasciare un retrogusto come di prevedibile e fatto con lo stampino, con quest'ultimo full-lenght la sensazione viene attenuata facendo ricorso a questo feeling più pesante e martellante che emerge con la giusta dose nei pezzi, e che certo è fortemente ispirato dal metalcore americano, ma ha anche la piacevole caratteristica di non suonare affatto come la solita imitazione ma di essere ben assimilato dal gruppo - anche perché rimiscelato assieme a sfuriate più thrash/melo-death che ricordano certi vecchi dischi.
Pur mantenendo l'anima di fondo che lo lega a Stabbing the Drama e Sworn to a Great Divide, questo The Panic Broadcast, insomma, suona inaspettatamente più genuino e ispirato di quanto ci si aspettasse, grazie anche al giusto equilibrio fra parti aggressive, stacchi melodici e pure un ritrovato tecnicismo che porta ad aumentare il numero di assoli (sempre taglienti) e a complessificare il lato ritmico, soprattutto per quanto riguarda la versatilità della batteria. Non mancano poi i soliti riferimenti townsendiani, mentre le tastiere tendono ad essere piccoli riempitivi.

L'iniziale Late For The Kill, Early For The Slaughter simbolicamente presenta per prime le caratteristiche più estreme del disco, con un veloce riff iniziale di stampo old-school ma sovrapposto a giri di note più moderni sullo sfondo e che lascia spazio a martellamenti groovy/core, con Strid impegnato ad urlare anche nel ritornello, pur sempre melodico. Una opener feroce (ma anche un po' piattina) che sembra quasi dire che i Soilwork sono tornati più cattivi che mai, pur non rinunciando alle sonorità più moderne e orecchiabili ormai entrate nel loro dna.
Per contro le successive Two Lives Worth of Reckoning e The Thrill si aprono maggiormente alla componente catchy del gruppo e anche ai muri sonori di chitarra dal sapore alternative a cui ci avevano già abituato, ma senza sminuire l'intensità del sound. A queste fa seguito la cavalcata furiosa di Deliverance Is Mine, veloce e adrenalinica, ma anche resa più elegante da velate influenze tastieristiche quasi prog (ovviamente con le dovute proporzioni del caso) e nelle costruzioni più tecniche.
Non aggiungono molto al discorso le successive Night Comes Clean (più lenta e distesa, con massicci chords sostenuti da piacevoli tastiere melodiche ed elettroniche di sottofondo) e King of the Threshold (nuovamente un pezzo schizzato ed infarcito di estremismi, come ad alternarli), che non fanno che ribadire il discorso intrapreso, mentre varia un po' il discorso Let This River Flow che è quasi una power ballad metalcore con sporadici inserti acustici, climax emotivi melodici e intrecci chitarristici easy-listening, miscela purtroppo fin troppo abusata da molti gruppi.
Suona parzialmente più convincente Epitome, che introduce spunti post-grunge abbinati ai consueti tappeti tastieristici e alla carismatica voce di Bjorn, ma per contro è anche un po' ripetitiva.
Conclusione affidata ad altri due pezzi che cercano di non riscaldare troppo la minestra, difatti The Akuma Afterglow è invece più vicina a certo emocore, mentre Enter Dog of Pavlov ricorda i primi Raunchy, in entrambi i casi abbiamo due pezzi senza lode e senza infamia con buoni spunti melodici ma non originalissimi.

Sono presenti anche delle bonus tracks: l'indeita Sweet Demise è un metalcore leggero e melodico in salsa svedese, in cui risaltano soprattutto le clean vocals di Strid; Sadistic Lullaby è una ri-registrazione del brano del 1998 che non aggiunge nulla all'originale; il remix di Distance invece la fa sembrare come se avessimo mischiato Mnemic e Killswitch Engage in un secchio ripieno di trance.

Tornando al dubbio iniziale, è sicuramente positivo vedere un disco più ispirato, vitale e dal songwriting più ricco e caratterizzato dopo il precedente disco, ma d'altro canto è ormai palese che dopo ben due dischi "di transizione" questo capitolo non presenti dei Soilwork capaci di reinventarsi e ritrovare la creatività di un tempo, bensì un gruppo che ormai ha la sua forma consolidata e probabilmente proseguirà per inerzia su questa strada.
Tanto per citare i Katatonia, i Soilwork di oggi hanno dimostrato con questo disco di avere la personalità per non essere affatto followers, pur lasciandosi contaminare da influenze varie che però metabolizzano molto bene, ma d'altro canto non hanno neanche l'inventiva e l'incisività dei leaders.

Probabilmente i puristi degli esordi saranno comunque schifati da questo lavoro, ma noi lo vediamo come un disco discreto che forse non impedirà agli svedesi di emanciparsi dal "timbrare il cartellino" ma che certo riesce ad essere compositivamente più convincente del predecessore.

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