Voto: 
7.5 / 10
Autore: 
Damiano Cembali
Genere: 
Etichetta: 
Victory Records
Anno: 
2009
Line-Up: 

:
- Shane Told - voce
- Neil Boshart - chitarra
- Josh Bradford - chitarra
- Bill Hamilton - basso, cori
- Paul Koehler - batteria, percussioni


Tracklist: 

:
- Chapter One: It Burns Within Us All
1. A Great Fire
2. Vices (ft. Liam Corner)
3. Broken Stars
- Chapter Two: Liars, Cheaters, and Thieves
4. American Dream
5. Their Lips Sink Ship
s6. I Knew I Couldn’t Trust You
7. Born Dead (feat. Scott Wade)
- Chapter Three: Fight Fire With Fire
8. A Shipwreck In The Sand
9. I Am The Arsonist
10. You’re All I Have
- Chapter Four: Death and Taxes
11. We Are Not The World
12. A Hero Loses Everyday
13. The Tide Raises Every Ship

Silverstein

A Shipwreck In The Sand

A 2 anni dal loro ultimo capitolo discografico, quell’Arrivals And Departures che aveva deluso pressoché all’unanimità pubblico europeo e audience nordamericano , i canadesi Silverstein ripropongono il loro emo core dinamico e potente con un progetto ambizioso, ben al di sopra di ogni aspettativa: A Shipwreck In The Sand, infatti, si configura come interessantissimo concept album, diviso in quattro capitoli narrativi per un totale di ben 14 tracce. Clamorosamente fallita la prova del terzo album, la formazione originaria dell’Ontario cerca e trova pienamente riscatto con un lavoro che si dimostra estremamente variegato e coinvolgente, le cui inconsuete sottigliezze tecniche e altalenanti sfumature emotive riescono a permeare ogni canzone di una propria personalità distinta e facilmente riconoscibile, di modo ché quell’amara monotonia che così tante meritate critiche si era attirata al tempo di Arrivals And Departures è definitivamente sconfitta e sepolta nella polvere della memoria.

Non è certo impresa da poco, per una band pioniera di un genere modaiolo e patinato qual è oggi l’emo, essere riuscita nell’intento di riproporre i capisaldi strutturali della propria proposta musicale così com’era in origine e, allo stesso tempo, esprimere in maniera così trasparente e confortante una maturità artistica che in tanti ci saremmo aspettati già 2 anni fa: poco male, perché A Shipwreck In The Sand è sì un frutto tardivo ma a dir poco squisito, e ricolloca i Silverstein nell’élite mondiale del loro genere. Per la verità, proprio quest’ultimo sembra trovare in questo brillante album una ragion d’esistere che sembrava essersi smarrita fra i ciuffi “ingellati” e le All Star consunte di quanti oggi si definiscono emo ed ascoltano Finley e compagnia cantante: la miriade di variazioni strumentali, ritmiche e soprattutto cromatiche, facilmente ravvisabili sin dall’inizio delle singole tracce, che presenta A Shipwreck In The Sand restituiscono a questo genere parte di quella freschezza e di quella doverosa dignità che ogni genere musicale dovrebbe possedere e proteggere, senza che venga sepolta sotto gli strepitii ululanti di folle giovanili in estasi per un bel faccino truccato e un look impomatato da finto rocker d’annata.

Ad ogni modo, è evidente che non ci troviamo di fronte ad un capolavoro in grado di rivoluzionare le attuali scene musicali, ma non si può certamente negare che si tratti di un album sincero e appassionato, di genere ma egregiamente concepito ed ancor meglio realizzato, che saprà soddisfare i più tenaci appassionati ed anche coloro i quali non disdegnano sonorità fortemente melodiche ma allo stesso tempo dinamiche e pulsanti. Chiaro: chi non tollera l’emo, forse più per i suoi estetici effetti collaterali che non per le sue reali partiture, probabilmente non cambierà idea all’ascolto di A Shipwreck In The Sand; al contrario, però, chi già si è invaghito di certe mediocri produzioni italiane, magari scoprirà nei Silverstein (il nostro auspicio è che già li conosca, altrimenti sarebbe una grave mancanza per chi si vanta definendosi “emo”) dei musicisti di indubbio spessore e nella loro discografia la vera essenza del proprio genere d’appartenenza.

L’unico elemento che può distogliere da questa gradita sorpresa è la difficoltà, da parte del disco nel suo complesso, di risultare graffiante e incisivo sin dai primi ascolti: la consuetudine di individuare negli album emo una nitida volontà commerciale, che trova la sua massima espressione nelle micidiali hit da classifica, alimenta aspettative che le tracce di A Shipwreck In The Sand sembrano in un primo momento brutalmente frustrare, giacché, con l’ovvia eccezione di qualche raro episodio (Amrican Dream su tutti), non c’è nessuna canzone che riesca davvero a stamparsi nella memoria in maniera immediata e indelebile. Paradossalmente, però, quello che in un primo momento pare essere un grave punto debole in seguito si rivela come la principale forza propulsiva dell’album in questione: è proprio nella sua totalità che quest’ultimo espone al meglio le proprie qualità e le proprie giuste ambizioni, avvolgendo l’ascoltatore in suoni e sensazioni sempre più attraenti e puntuali, ascolto dopo ascolto, senza pause e soprattutto senza sbadigli.

In tutta franchezza, soffermarsi eccessivamente su questa o quell’altra traccia sarebbe operazione del tutto insensata e riduttiva, dinanzi ad un concept album che, per sua stessa definizione, proprio dalla fluida successione dei pezzi e dal complesso delle loro potenzialità narrative trae origine e scopo ultimo. I tratti più caratteristici sono certamente i chorus estremamente melodici, ottimamente rafforzati dall’interazione sempre ben congeniata delle vocalità in clean e in scream, così come i pattern di batteria, che variano in maniera piuttosto significativa da ritmiche tendenzialmente post-hardcore ad altre vagamente riconducibili al rock’n’roll (Vices, per la quale è fondamentale il contributo del leader dei Cancer Bats Liam Corner, e We Are Not The World) fino al poderoso blastbeat in controtempo (l’aggressiva Born Dead); allo stesso modo, solo in rare occasioni possiamo apprezzare l’emo rock in perfetta purezza (in parte Broken Stars, la più banale I Knew I Couldn’t Trust You, You’re All I Have, che mette in evidenza un’esaltante linea di basso, ed A Hero Loses Everyday), giacché in diverse circostanze possiamo individuare lievi contaminazioni punk (Broken Stars, appunto, e Born Dead), strutture sonore maggiormente heavy-oriented (I Am The Arsonist) o i già citati ritmi in roll, oltre che certe influenze noise psichedeliche al cospetto della meravigliosa titletrack A Shipwreck In The Sand, di gran lunga l’episodio più caratteristico e affascinante del platter. Da sottolineare, inoltre, l’assoluta pregevolezza delle ballad (l’emozionante American Dream e la semiacustica, lunghissima The End, anticipata dal soffice intermezzo marittimo The Tide Raises Every Ship e valorizzata dall’azzeccata partecipazione della tenerissima Lights), sempre efficaci e per nulla banali.

Il nostro consiglio finale, quindi, è quello di avvicinarsi ad A Shipwreck In The Sand senza timori di sorta e soprattutto senza pregiudizi, perché, che vi piaccia o non vi piaccia l’emo (core, visto il calibrato ma diffuso utilizzo del cantato in scream), nei Silverstein non troverete mai né superficialità né finzione ma solamente la passione e l’onestà intellettuale di chi scrive esattamente la musica che più gli piace, senza curarsi di essere trendy o apparire fashion: strano a dirsi, purtroppo, ma al giorno d’oggi vale già davvero tanto.


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