Voto: 
8.5 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Steamhammer
Anno: 
1991
Line-Up: 

- Jon Oliva - voce, pianoforte, tastiere
- Criss Oliva - chitarre
- Johnny Lee Middleton - basso
- Steve "dr. Killdrum" Wacholz - batteria

Tracklist: 

1. Streets
2. Jesus Saves
3. Tonight He Grins Again
4. Strange Reality
5. A Little Too Far
6. You're Alive
7. Sammy and Tex
8. St. Patrick's
9. Can You Hear Me Now?
10. New York City Don't Mean Nothing
11. Ghost in the Ruins
12. If I Go Away
13. Agony and Ecstasy
14. Heal My Soul
15. Somewhere in Time
16. Believe

Savatage

Streets: A Rock Opera

Quello di cui vi accingete a leggere non è un album heavy come tanti, non un semplice disco particolarmente riuscito, ma è molto di più, è quella che viene comunemente chiamata "rock opera", una storia raccontata tramite la musica (in questo caso dei Savatage) che assume ora il compito di narrare questo racconto, di esprimerne le emozioni e le sensazioni, mediante parti dure e rocciose, dolci ballate e un elemento sinfonico costituito non solo dal pianoforte di Jon ma anche da una certa orchestrazione nelle composizioni e nelle atmosfere quasi teatrali. La genesi di questa rock opera è curiosa: successivamente alla pubblicazione di Gutter Ballet i Savatage intrapresero un tour di nove mesi (al termine del quale Chris Caffery lasciò la band per seguire un progetto personale assieme al fratello), mentre nel frattempo il produttore Paul O'Neill divenne sempre più strettamente legato al gruppo, col quale è costantemente in contatto anche al di là del lavoro (collaborando, vedremo in seguito, soprattutto nella stesura dei testi). Una collaborazione davvero stretta, tanto che un giorno i Savatage si ritrovarono ad una festa a casa di Paul: ed è proprio in questa occasione che Criss casualmente rinvenne una vecchia sceneggiatura ormai dimenticata (pare in un baule o in uno scaffale). Questo manoscritto di Paul appassionò subito Criss, soprattutto per la somiglianza con le vicende personali di Jon, e lo propose al gruppo come tema del successivo album dei Savatage... è la storia di D.T. Jesus, musicista Newyorkese divenuto una rockstar celebre e rinomata, alternando momenti di gloria ad altri decisamente più bui, trovando nella musica l'apparente conforto dal peso delle vicende che travolgono la sua vita. Il mondo dello spettacolo non è affatto un paradiso idilliaco, perché come costantemente braccato da un'ombra maligna Jesus deve combattere una battaglia personale con la droga, da cui cerca di uscire riuscendoci infine, ma che in un modo o nell'altro tornerà sempre a tormentarlo con ricordi dolorosi, difficoltà che riemergono dal passato e crisi nell'animo e nello spirito. E' la storia di quello che è probabilmente l'album più famoso dei Savatage, ovvero Streets: a rock opera. Il sotto-titolo è perfettamente esauriente su ciò che viene scoperto nell'album, in quanto assistiamo per davvero ad un'opera musicata in forma rock, dove i brani al contempo narrano la storia e ne fanno da espressione sonora. Inevitabile quindi che la memoria pensi ai connazionali Queensryche, che pochissimi anni prima all'altro capo degli USA (a Seattle) scrissero nel 1988 il masterpiece Operation: Mindcrime, altra pietra miliare dell'heavy metal, come Streets simbolicamente giunta in un periodo in cui si riteneva il metal classico in crisi.

Possiamo considerare Gutter Ballet, dal punto di vista compositivo (ma anche nelle tematiche affrontate nei testi), un preludio a Streets, che espande e consolida le sonorità venute a crearsi nel disco precedente, le affina e rende il tutto ancora più coeso, eterogeneo e diretto, facendo scorrere ciascuna canzone con fluidità impeccabile e rendendo reale il concetto di "rock opera". Se Gutter Ballet apriva una soglia, Streets l'attraversa e prosegue in questo varco, descrivendo minuziosamente i dettagli dell'innovativo stile forgiato dai fratelli Oliva & soci. Ciascun momento della storia, a seconda di ciò che esprime e dell'ambiente che intende ricreare, viene interpretato alla perfezione da Jon e Criss, probabilmente al loro apice creativo; una ricchezza di idee impressionante, idee che vengono concretizzate con un ricco campionario di riff, melodie di pianoforte e assoli memorabili, oltre che da testi di pura poesia, come accadeva per Gutter Ballet e anche di più. A rendere però unico Streets (contribuendo a renderlo un capolavoro ancora oggi insuperabile per molti gruppi hard & heavy) è il particolare arrangiamento dei brani, strutturati per esprimere al meglio la forza della storia narrata, significativa e avvincente. Per la stesura dell'album vennero scritte ventisei canzoni (alcune riarrangiamenti di inediti precedenti alcune ideate apposta per lo spettacolo di Broadway, altre solo per il disco), ma dieci sarebbero state scartate (inizialmente infatti si ipotizzò un doppio cd, cosa che non piacque alla label). Sono canzoni che si fanno, come già detto, orchestrate, o meglio, quasi, non siamo ancora ad un vero e proprio metal sinfonico, termine che sarebbe improprio per gli album di metà carriera dei Savatage, anche se il lavoro del piano di Jon e l'atmosfera ricreata in quest'album praticamente danno il quid che condurranno a tale meta (vedremo alcuni anni dopo con Dead Winter Dead il culmine dell'evoluzione verso questa direzione). L'anima di Streets è costituita da rocciose sfuriate metal che si alternano a momenti di oscura calma, per poi lasciare spazio nel brano successivo ad una ballad malinconica, andare avanti ancora con un hard rock bruciante ma sempre unito alle note di pianoforte, continuare con altro brano lento e struggente, riunire il tutto e chiudere il cerchio. Si combinano i vari passaggi da una sonorità all'altra di Criss, con interventi ora duri, impetuosi, ora dolci, emotivi, il tutto supportato dal pianoforte di Jon che spesso recita un ruolo di primo piano, ancora più che in Gutter Ballet. I tempi dei primi album ormai sono molto lontani, eppure i mutamenti avvenuti in casa Savatage appaiono naturali, come se l'entusiasmo degli esordi non fosse mai stato perso, come se l'eleganza dei nuovi dischi fosse insita anche nei riff veloci e cattivi di un tempo.

E la storica titletrack iniziale, dopo l'intro che mostra un canto corale di bambini, passa da una rapida atmosfera d'innocenza alla spietatezza della downtown, con i riff implacabili, con il chorus maligno dove le voci si sovrappongono per ricreare un effetto suggestivo; il testo del ritornello è esauriente sull'aria angosciante ma al tempo stesso di illusoria liberazione che quel mondo trasmette:

These streets, glitter in the dark
Don't sleep, red eyes sunken and stark
Dream deep, in her arms where you are safe
These streets, never sleep still never wake


Jesus Save introduce il protagonista del concept; saltando il pezzo recitato iniziale, partono subito una sere di riff aggressivi che avrebbero furoreggiato addirittura su Hall of the Mountain King, tanto sono decisi e incandescenti. La memorabile ballata Tonights He Grins Again riporta ai lati più neo-classici dell'album precedente; i grandi riff di chitarra e lo storico giro di pianoforte si uniscono alla malinconia che viene riverberata sullo sfondo della canzone, non soltanto dagli interventi blueseggianti di Criss qua e là e dalle atmosfere di tastiera, ma dalla stessa voce ruvida e sofferta di Jon; inizialmente può sembrare troppo aspra per queste sonorità, al punto da mal adattarsi, ma il suo carisma sopperisce ampiamente al punto da rendere Jon insostituibile. In alcune versioni del disco si può trovare il brano unito al seguente: Strange Reality irrompe col suo acido riff quasi a proseguire l'aura più cupa di Tonight He Grins Again, ma nell'orecchiabile ritornello (che riporta vagamente alla mente i Rush) le sensazioni si fanno più rilassate, quasi spensierate, in contrasto con quelle precedenti. Altra ballad, A Little Too Far, questa volta interamente fondata sul dolce pianoforte, proponendoci melodie tenui e dolci e un memorabile ritornello entrato nella storia della band, unico neo potrebbe essere il fatto che la canzone alla lunga potrebbe apparire un po' melensa se si protraesse a lungo, ma i Savatage fanno una scelta azzeccata nel dosare equilibratamente la sua lunghezza, relativamente breve. L'ancora più corta You're Alive parte infuocata col suo riff granitico: "one, two, three, four!" e subito si inseriscono la dura voce di Jon e brevi accordi di pianoforte di sottofondo che rendono il brano comunque molto orecchiabile, ma dopo solo due minuti arrivano le influenze Motorheadiane con l'improvviso inizio di Sammy and Tex, molto più dirette che nei brani più spediti del disco e che trasformano la canzone rendendola ferocemente garage/heavy/punkeggiante. St. Patrick torna alle sonorità di A Little Too Far, aggiungendo le parti di chitarra elettrica e lenta batteria che svolgono il loro dovere nella consueta ballata rock. L'organo che viene aggiunto ad un certo momento immerge appieno nella chiesa di St. Patrick, e il brano si evolve fino al punto in cui potremmo anche dire che non sfigurerebbe in un musical (idea che tra l'altro allo stesso Jon non è mai dispiaciuta). Gli arpeggi acustici iniziali di Can You Hear Me Now? fanno scendere un'aura spettrale, aiutati dal tappeto di tastiera di sottofondo, e quando la canzone entra nel vivo giungono alcuni dei riff migliori del disco, infuocati come una colata di lava ma mai ostici, sempre melodici e ricchi di groove. Ennesima ballad, questa volta di stampo prettamente acustico: New York City Doesn't Mean Nothing. O almeno sembrerebbe, passa un minuto e mezzo, dopodiché una sezione ritmica incalzante e riffs che riportano a Strange Reality trasformano la canzone, da struggente qual era a decisa, rocciosa hit, diventando quasi la colonna sonora della frenetica attività urbana della città... Ghost in the Ruins è un brano definito dai fan, non a torto, come leggendario, infatti è uno dei più famosi dei Savatage; il suo arpeggio è una delle melodie più note della band, così come il ritornello, e l'assolo è praticamente nella storia del gruppo, immensamente suggestivo e sempre richiestissimo nei live. Ormai dovreste avere intuito l'alternanza di brani, e infatti If I Go Away è, manco a dirlo, una ballad (intera). E' uno dei tanti, canonici, grandi pezzi rimasti nella memoria del gruppo, il ritornello è fra i più famosi dei Savatage e il pianoforte propone alcuni dei giri di note più efficaci della loro discografia. Malinconica, dolce, ma al tempo stesso decisa. Ora un riff, anche questa volta storico, bruciante e seguito da parti più heavy/thrash: Agony and Ecstasy è lo spaccato più diretto sul mondo della droga, all'inizio confortante, seducente, ma che subito si trasforma in un tunnel claustrofobico. Ma in particolare si parte anche proprio da questo tunnel dovuto alla dipendenza, al tentativo di cercare una valvola di sfogo al proprio disagio, un modo per fuggire dal mondo marcio che ci circonda, e che si conclude con la sensazione illusoria di benessere data dall'assuefazione alle sostanze stupefacenti, al ruolo di demone interiore che la dipendenza assume, fino a far diventare la droga una necessità a cui è difficile resistere (significativo l'invito finale "if you ever need me I'm here", a simboleggiare la facilità con cui si entra nel vortice autodistruttivo). Questo si ripercuote sulla canzone successiva, Heal My Soul, una toccante introspezione, culminante nel riconoscimento del grave errore commesso e nella richiesta di guarigione fisica, mentale, spirituale; l'atmosfera data dai leggeri cori di bambini di sottofondo può sembrare banalotta ma avvicina di più al mood della canzone. La lettura della storia sul booklet, con la descrizione di questo punto della vita di Jesus, rende più chiara la situazione che si è venuta a creare nella storia. Secondo l'alternanza di brani fino a adesso incontrata dovrebbe toccare ora ad un brano più hard & heavy, ma Somewhere in Time è un'altra ballad, seppur con la presenza rilevante del lato rock, sul tipo di When the Crowds Are Gone. Effettivamente dopo due minuti si fa più decisa, un po' come New York City, ma le atmosfere rimangono quelle di una ballad e l'intervento è molto breve, lasciando spazio per il finale ad un dolce giro di pianoforte (esattamente come in WtCAG). Subito dopo parte quella che probabilmente è la canzone più famosa di tutti i tempi dei Savatage. Un monumento che riporta alla mente le ballate di pianoforte di gruppi come i Beatles, con l'ormai classico miscelarsi alla parte più rock in puro stile Savatage; parte più rock segnata dai chords di chitarra e dal lento scandire della batteria. Nel testo, una ripresa da WtCAG, cioè il famoso anthem "I never wanted to know [...]" che da qui in poi verrà ripreso altre volte dalla band. Ma il ritornello è rimasto ancora di più nella memoria di tutti i fan dei Savatage, che per stessa ammissione di Jon citano questa canzone più spesso di ogni altra nella posta spedita a Tampa: stiamo parlando di Believe. E sì, forse tanto chiacchierare è, come quasi ogni volta che capita, esagerato, ma lasciatevi pure trasportare dalle melodie finali di Streets, disco chiuso in maniera eccellente.

Nonostante il successo ottenuto con Streets, per i Savatage non fu tutto rose e fiori: durante il tour Jon iniziò ad accusare problemi alla voce, via via sempre più insistenti, che condizionarono i concerti dei Savatage fino al punto che una sera non riuscì più a cantare. La diagnosi medica fu molto preoccupante, anni di giovinezza sregolata avevano compromesso le corde vocali di Jon e c'era il serio rischio non solo di abbandonare i tour, ma la stessa carriera di cantante. Così, a malincuore, per scongiurare l'eventualità di un possibile scioglimento del gruppo, Jon dovette rinunciare al suo ruolo di frontman dei Savatage per iniziare le cure di riabilitazione, decidendo così di concentrarsi maggiormente su quello di pianista, di compositore e di mente attiva del gruppo. Erano parti per i quali il Mountain King aveva ancora tutta la sua grinta, nonostante i problemi vocali. Però rimaneva un problema, e cioè decidere chi avrebbe dovuto sostituire Jon come cantante nei Savatage, e questo avrebbe segnato un capitolo importante nella storia del gruppo.

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