Voto: 
5.0 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Etichetta: 
EMI/Virgin
Anno: 
1997
Line-Up: 

- Claus Zundel - composizione, produzione e sampling

Tracklist: 

1. Intro
2. Culture Clash
3. Lay Down
4. On the Road
5. Legends
6. I. No More Cotton - II. Interlude "To Be a Slave"
7. The Sun Won't Walk No More
8. Black Progress
9. Roots
10. Babes in Jukes Houses
11. I. Brownsville, Tennessee - II.  Interlude "To Be a Slave" N.2
12. Slow and Easy
13. Sonnet XVIII

Sacred Spirit

Volume 2: Culture Clash

"Sacred Spirit Volume 2 Culture Clash is an album that attempts the audacious: to combine the raw essence of the blues with the sophisticated orchestral structures of classical music, and then to underpin the two with contemporary rythms. You will have heard nothing quite like it."

Le cose non stanno esattamente così ma andiamo con ordine.
Sotto il nome Sacred Spirit si cela il progetto new age di Claus Zundel, che nel 1994 rilascia il proprio primo album ispirato dai canti dei nativi americani (da cui sono stati tratti anche alcuni singoli divenuti molto famosi nel mondo).
Dopo tre anni ed un buon successo ottenuto dalle proprie hit principali il gruppo decide di virare la proposta musicale, optando per un tessuto elettronico liquido e intimista basato su continue cupe ritmiche downtempo (a parte un paio di eccezioni), su tonalità soffuse da chillout, su orchestrazioni sia d'archi che di strings (ma definirli "elementi di musica classica" è alquanto azzardato) e samples di chitarre blues a dare un'aura più malinconica e meno oscura al tutto.
Il risultato, pur scorrevolmente fumoso e orecchiabile nei tappeti atmosferici, si rivela però una sorta di trip hop stemperato e artificioso, dove l'intento di ricreare atmosfere avvolgenti viene tradito da una miscela stilistica impersonale e ripetitiva, da melodie blande e da una generale attitudine a ricercare il suggestivo mediante cliché sonori preconfezionati - nient'altro che soluzioni ad effetto derivative e prive di reale sostanza.
Il concept dell'album è ispirato principalmente dalla tragica esperienza dello schiavismo in America.

In apertura c'è Intro, traccia atmosfericamente cupa ed esotica, seguita dalla titletrack, con atmosfere noir prese in prestito dagli Apollo 440 di Electroglide in Blue, loop elettronici ricalcati dalla Bjork di Army of Me e occasionali interventi di archi e vocalizzi bluesy che però non impreziosiscono il brano e suonano più che altro inserimenti ruffiani. Il tutto è sostenuto da una struttura a ripetersi che appiattisce il tutto.
Non c'è molto su cui soffermarsi perché gran parte delle successive canzoni come Lay Down, Black Progress, Roots o Babes in Juke House non sono altro ripetitivi e alla lunga stancanti esercizi di stile fini a sè stessi, con battito cadenzato banalizzato, fondali atmosferici cupi ma intrisi di una vena orecchiabile (mediata da gruppi come gli Olive), sporadici interventi vocali dolenti, archi inseriti a caso tanto per metterceli (a tal proposito si può notare l'impietoso confronto con Londinium degli Archive, album trip hop che aggiunge gli archi in maniera sensibilmente più elegante, ricercata e creativa ottenendo risultati di tutt'altro livello) così come i timidi samplings di chitarra.
On the Road ha spunti più soffusamente lounge sulla scia di certi primi Massive Attack, mentre Legends e Roots presentano invece un collage derivativo di beats uptempo, chitarre acustiche country-blues e spruzzi elettronici electro-pop. Il doppio interludio To Be a Slave è una semplice duplice parentesi manieristica che non aggiunge nulla al disco, la parte migliore è probabilmente la seconda con un dolce, mesto pianoforte di sottofondo.
The Sun Won't Walk No More è persino un plagio ai beats di It Could Be Sweet dei Portishead, con un timbro sonoro ripreso poi dalla noiosamente monotona Brownsville, Tennessee.
Risultano meglio riuscite No More Cotton (bassi dub ben inseriti, pregevoli effetti di tastiera, vocals alla John Lee Hooker, ma viene penalizzata dalla melodrammaticità insulsa degli archi), Slow and Easy (remix di un brano di Hooker con effetti elettronici stranianti, bassi avvolgenti, climax di strings ed archi meno ridondante e più emozionale del solito ed ovviamente le sue calde vocals) ed il country/western contaminato con battito elettronico della conclusiva Sonnet XVIII, formalmente banale ma capace di interessanti aperture melodiche ed atmosfere maggiormente intriganti.

L'album in sè non fa schifo, ed anzi come sottofondo sonoro atmosferico e rilassante potrebbe pure funzionare in alcune occasioni; il problema è che si tratta sostanzialmente di un copia-incolla di stilemi differenti accorpati insieme senza conferirvi concretezza creativa lungo il corso dell'album, perdento tempo invece con ridondanze inutili e rubacchiamenti sonori vari. I brani sono tutti notturni, distesi e rilassati, con una certa predilezione per l'evocatività malinconica ed onirica (almeno negli intenti) ma sempre radio-friendly; sono però anche scarsamente personali ed originali nel loro prendere in prestito vari stilemi con l'intento di suonare "profondi" a tutti i costi. Per questo suonano anche sempre macchiati da uno spiacevole manierismo stilistico nel mettere uno smielato arco struggente qui, un etereo ma stereotipato fondale ambient là, battito rallentato ripreso dal trend trip hop lungo tutta la traccia e così via.
Gli arrangiamenti sono inoltre più dozzinali di quel che sembrano, fattore riprovato anche dalla sostanziale scarsa varietà nei brani stessi.

In poche parole uno sbiadito surrogato trip hop, la cui attitudine alla base affonda le sue radici non tanto nell'hip hop o nella psichedelia onirica quanto più nel mondo new age, risultando però povero d'ispirazione e di personalità.

Il disco viene ri-edito nel 2000 sotto il monicker Indigo Spirit.

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