Voto: 
8.5 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Etichetta: 
Anthem/Mercury
Anno: 
1978
Line-Up: 

- Geddy Lee - bass guitars, vocals, Oberheim 8-voice synthesizer, Mini-Moog Synthesizer, Moog Taurus Pedals
- Alex Lifeson - electric, acoustic and classical guitars, Roland Guitar Synthesizers, Moog Taurus Pedals
- Neil Peart - drums, orchestra bells, bell-tree, tympani, gong, cowbells, temple blocks, wind chimes, crotales
 

Tracklist: 

1. Cygnus X-1: Book II: Hemispheres
2. Circumstances
3. The Trees
4. La Villa Strangiatio - An Exercise in Self-Indulgence

Rush

Hemispheres

Il sesto album studio dei Rush, intitolato Hemispheres e registrato in Galles ai noti Rockfield Studios, vede il trio canadese recuperare un approccio più duro rispetto a quello del predecessore, come se si fosse deciso di creare il punto di congiunzione fra 2112 e A Farewell to Kings.
Tecnico e dagli arrangiamenti cerebrali, soprattutto nello sfoderare lunghe digressioni strumentali che pongono l'enfasi sulla sinergia dei componenti del gruppo, ma pesantemente contaminato anche dal background più hard rock dei nord americani che da spazio ad una notevole componente chitarristica e melodica, Hemispheres è un punto d'incrocio fra tendenze diverse che non fa che riconfermare la maturità stilistica a cui sono giunti i tre.
A svettare particolarmente è come al solito Neil Peart, non solo batterista formidabile, ma anche mente pesante dietro la scrittura delle canzoni e soprattutto dei testi, in quest'album dall'immaginario particolarmente evocativo; ovviamente senza nulla togliere all'invidiabile chitarra di Alex Lifeson e al basso inimitabile di Geddy Lee.

La prima traccia è il secondo capitolo di Cygnus X-2, introdotto da una cavalcata di chitarre ruvide sopra tappeti di tastiere soffici e spaziali, e con un testo che fa riferimento alla mitologia greca. La batteria scandisce il tempo in maniera variopinta, dando il quid anche a diversi cambi di tempo che giocano con le atmosfere sognanti e gli stacchi più aggressivi in maniera naturalissima. Non c'è esibizionismo o freddo accademismo, la tecnica dei Rush non è fine a sè stessa, è anzi tecnica nella sua accezione positiva, cioè come l'avere uno stile compositivo ed esecutivo unico, in cui si riconosce immediatamente la matrice del gruppo e le idee sonore assemblate per creare qualcosa di unico, esprimere le proprie intuizioni, coniugare l'elaborazione mentale (ed artistica) con l'intensità della riproduzione sonora. Se le prime parti presentano interessanti inserimenti delle tastiere fra attacchi più decisi e costruzioni più tecniche, la sezione centrale tende a privilegiare il lato più ritmato, orecchiabile e anche virtuosistico del gruppo, andando però poi a sfociare in una parentesi ambient con tastiere suggestive e campionamenti per dipingere uno scenario cosmico e avvolgente. Successivamente si viene traghettati sui binari di un hard rock molto catchy che dopo non molto lascia spazio ad una breve coda acustica malinconica. In definitiva una perla del progressive hard rock, che su vinile occupa l'intera prima facciata con i suoi 18 minuti totali di esecuzione, analoga a 2112 in quanto suite divisa in più capitoli, ma con reale continuità.

La seconda viene aperta dal breve hard rock graffiante di Circumstances, comunque contaminato da poliritmie e infiltrazioni tastieristiche a fare da contorno.
The Trees inizia come pezzo folk con la sua chitarra classica ad accompagnare la voce mesta di Lee. All'improvviso esplodono le distorsioni e la batteria, andando poi ad alternare sezioni più dinamiche e molto trascinanti con notevoli distensioni atmosferiche e melodiche. Singolare il testo, che parla della competizione naturale fra gli alberi per accaparrarsi più luce solare crescendo in altezza e che è stato oggetto di numerose interpretazioni.
Infine abbiamo la suite strumentale de La Villa Strangiato (il cui sottotitolo lascia intravedere una positiva auto-ironia), dove questa volta i Rush si lasciano andare per dar mostra di sè e del proprio virtuosismo, ma lo fanno con una freschezza assoluta che non annoia mai e anzi, rende ancora più catturanti e carismatici gli innumerevoli inserti e intrecci del pezzo in cui su base puramente progressiva si alternano suoni spagnoleggianti, enfasi hard rock, momenti più atmosferici e anche onirici, assoli intensi e persino spunti jazz-rock che influenzano il piglio del gruppo e la naturalezza con cui modula le proprie improvvisazioni per renderle compatte e imponenti. Pare addirittura che i Rush all'epoca lo vollero registrare tutto per intero con un solo colpo, per catturare l'essenza più diretta e genuina, e per questo dovettero ripetere tutto più volte. Un piccolo difetto: la chiusura è forse troppo improvvisa e spiazzante.

Se c'è qualcosa che affascina più di tutto nella musica di questo disco ed in generale dei canadesi è nel suo saper coniugare espressioni differenti come tecnicismo, impatto, melodia e atmosfera, fondendoli tutti in qualcosa di nuovo senza perdersi in sbrodolature da l'una o l'altra parte e rivelando la vena compositiva multi-sfaccettata del trio.
La classe dei Rush trionfa quindi nel suo essere al tempo stesso complessa e accessibile, tecnica e immediata, capace di grande perizia esecutiva ma anche di creatività sciolta e buon senso melodico. Un gruppo completo ed una delle realtà più intriganti e valide degli anni '70. Un successo consacrato anche dalle vendite, poiché Hemispheres diventa disco di platino in America e disco d'oro in Europa

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