Voto: 
9.5 / 10
Autore: 
J.
Genere: 
Etichetta: 
4AD Records
Anno: 
1992
Line-Up: 

- Mark Kozelek - Voce, Chitarra
- Anthony Koutsos - Batteria
- Gorden Mack - Chitarra
- Jerry Vessel - Basso

 

Tracklist: 

1. 24
2. Medicine Bottle
3. Down Colorful Hill
4. Japanese to English
5. Lord Kill the Pain
6. Michael

Red House Painters

Down Colorful Hill

Love is found on the inside, not the outside...

Se fare una recensione oggettiva è sempre stato un compito la cui difficoltà varia dal difficilissimo all'impossibile, nel fare una recensione di un album dei Red House Painters l'ago punta ineluttabilmente verso l'impossibile. Nel caso di questo album in particolare, il loro debutto, non si può nemmeno provare a scrivere qualcosa di vagamente oggettivo. Questa musica viene dal cuore e punta direttamente al cuore dell'ascoltatore. Ma andiamo con ordine.

Mark Kozelek nasce nell'Ohio, dove conosce in giovane età (sembra addirittura a 10 anni) droghe e delusioni amorose a non finire. Dopo essere passato dalla disintossicazione, si sposta a San Fancisco, dove mette su una band, i Red House Painters appunto. In realtà sebbene ogni membro dell'organico abbia una sua funzione e - si suppone - libertà esecutiva e compositiva per quanto riguarda il suo strumento, si può parlare tranquillamente di one man band, giacché il gruppo è "agli ordini" di Kozelek, che lo usa per raccontare al mondo le sue vicissitudini, le sue gioie ma - soprattutto, of course - le sue sofferenze. Dopo qualche anno passato a scrivere e a suonare dal vivo, i quattro inviano un demo, un pugno di canzoni, alla 4AD di Londra. Che lo pubblica immediatamente cambiando giusto un paio di cose nel missaggio. È il 1992, e in giro non si è mai sentito nulla di simile. Si deve coniare un nuovo termine: con estremo sforzo creativo, si inizia a parlare di slowcore (o sadcore), una delle definizioni più brutte (ma volendo anche più appropriate) di sempre.

Perché le sei lunghe composizioni di Down Colorful Hill sono indubbiamente slow e anche parecchio sad. Prendiamo la traccia iniziale, "24". Le note gentili di chitarra non hanno fretta di venire a galla, e si può iniziare a cogliere qualcosa che assomiglia a un ritmo solo dopo qualche decina di secondi. Arriva poi anche la voce di Kozelek, bassa, sofferta, spontanea, e infine basso e batteria a scandire il tempo, lento e inevitabile. "Oldness comes with a smile, to every love given child"...
Ma la tristezza ha più forme, ed è una decisamente più viscerale e arrabbiata quella che fa capolino dalle schitarrate spettrali, vagamente reminescenti dei compagni di etichetta Cocteau Twins, dei dieci minuti di "Medicine Bottle", il loro capolavoro assoluto.

C'è chi dice che le cose migliori nella musica (e nell'arte tutta) siano state fatte partendo da una disperazione di fondo, da una vita vissuta nel dolore. Ascoltando "Medicine Bottle", viene da chiedersi se non sia vero: perché i testi suonando incredibilmente sinceri. Esiste una persona che non abbia provato la disperazione sulla propria pelle che sarebbe capace di pronunciare frasi come "not wanting to die out here, without you" senza suonare irrimediabilmente falsa?

La batteria che scandisce il tempo in 3/4 della title-track ci fa riprendere un po' dall'angoscia appena conclusasi di "Medicine Bottle". Stavolta però si tratta di preghiera e speranza, i sostantivi più adatti a definire questo inno spirituale di undici minuti ("prayers, prayers, prayers", ribadisce appunto Kozelek). Ripetitivo? Dopo dieci minuti dello stesso giro di chitarra (con qualche stacco gradevolissimo), senza dubbio. Prescindibile? Affatto. I maniaci degli assoloni ascoltino e imparino come si possa mantenere una canzone alla stessa grandiosa intensità per un periodo così lungo (per la media del rock, ovviamente) senza ricorrere a tecnicismi superflui e fini a se stessi.

Se la malinconia fosse una canzone, quella canzone sarebbe "Japanese to English". "I cannot translate Japanese to English, or English to Japanese": elegante ed efficace allegoria dell'incapacità di comunicazione nell'amore, sostenuta da chitarra, basso e batteria nel solito modo scarno e tuttavia efficacissimo a cui siamo ormai abituati. Non bisogna pensare che vi sia avarizia di note e ritmi, anzi: essi vengono sparsi e dilatati "q.b.", per dirla con un paragone culinario.

Poi beh, arriva la sorpresa quando meno te l'aspetti: un ritmo frenetico e - addirittura! - allegro, che introduce il pezzo più spensierato dell'album, regalandoci un attimo di pausa dalla cupezza che a questo punto del disco dovrebbe essersi completamente impadronita di noi. Certo, se andiamo a esaminare il testo o anche solo scorgiamo il titolo della canzone - "Lord Kill the Pain", mica "walking on sunshine" - ci possiamo rendere conto che in realtà Kozelek non ha cambiato improvvisamente idea sulla vita, ma nonostante il tutto sia un po' lugubre e vagamente perverso ("lord kill my girlfriend, and kill my best friend Sam - 'cause I saw them making eyes again") non si può fare a meno di battere il tempo con le gambe davanti a cotale prodigio folk-rock.

Si finisce con una ballatona, nella quale la chitarra acustica ci porta indietro nella gioventù di Mark Kozelek e del suo amico scomparso, "Michael". Si parla appunto delle rimembranze, lontane eppure mai svanite, del "dreaming boy without his shirt on". "Where are you now?", canta il nostro, e ormai ci sembra quasi di averlo conosciuto anche noi, questo Michael, tanto ci arrivano evocative e precise le immagini del passato di Kozelek. O forse sono solo i ricordi del nostro "my best friend" d'infanzia, che ormai abbiamo dimenticato da tempo e di cui questa canzone fa riaffiorare memorie sconnesse.

Insomma, abbiate questo album a qualsiasi costo. Una volta ottenutolo, andate in campagna di notte, sdraiatevi sul grano e guardate le stelle mentre lo ascoltate fumando una sigaretta amarissima, intrisa dei ricordi dei vostri vecchi amori...
 

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