Voto: 
7.5 / 10
Autore: 
Damiano Cembali
Genere: 
Etichetta: 
Hellcat
Anno: 
2009
Line-Up: 

:
Tim Armstrong – lead vocals, guitars
Lars Frederiksen – guitars, lead vocals
Matt Freeman – bass, lead vocals
Branden Steineckert – drums, percussion
Booker T. Jones – Hammond B3 in “Up To No Good”
Vic Ruggiero – Keyboards, Hammond B3

Tracklist: 

:
01. "East Bay Night" - 2:05
02. "This Place" - 1:03
03. "Up to No Good" - 2:40
04. "Last One to Die" - 2:23
05. "Disconnected" - 2:00
06. "I Ain't Worried" - 2:36
07. "Damnation" - 1:30
08. "New Orleans" - 3:04
09. "Civilian Ways" - 4:11
10. "The Bravest Kids" - 1:36
11. "Skull City" - 2:51
12. "L.A. River" - 2:35
13. "Lulu" - 2:11
14. "Dominoes Fall" - 2:43
15. "Liberty and Freedom" - 2:45
16. "You Want It, You Got It" - 1:36
17. "Locomotive" - 1:38
18. "That's Just The Way It Is Now" - 2:52
19. "The Highway" - 3:10

Rancid

Let the Dominoes Fall

Ci sono amici che, anche dopo essersi persi di vita per anni, si ha sempre il piacere di ritrovare, rivedere, risentire; allo stesso modo, ci sono conoscenti dei quali, per quanto ce li si ritrovi sulla strada spesso e (mal)volentieri, si potrebbe e vorrebbe tranquillamente fare a meno. Ebbene, i californiani Rancid appartengono alla prima categoria ed è per questa ragione che, dopo 6 lunghi anni di attesa e la sostituzione dello storico drummer Brett Reed con l’ex Used Branden Steineckert, possiamo finalmente riprendere in mano un loro nuovo lavoro con animo sereno e altamente fiducioso: Let The Dominoes Fall, infatti, non tradisce le elevate aspettative che giustamente si riponevano in una delle band più osannate nonché rappresentative del punk rock di inizio III millennio, dimostrando ancora una volta come il tempo si possa virtualmente fermare senza perdere nulla in termini di qualità artistica e sano piacere musicale.

Riprendendo alla perfezione il discorso lasciato in sospeso col precedente successo internazionale, il sofferto Indestructible datato ormai 2003, la formazione losangelina ripropone una formula risultata vincente negli anni senza tradire in nulla la propria essenza gioiosa, spensierata, tinta di un’ironia beffarda e divertente, riducendo la componente più intimista che dominava il capolavoro discografico di 6 anni or sono (le tremende vicende personali che scossero la band più di un lustro fa sembrano assorbite, sebbene tutt’altro che sopite e dimenticate) ed esaltando, evidentemente sotto gli influssi del cocente sole californiano, una contagiosa allegria dal sapore estivo e vacanziero.  Dal punto di vista stilistico, i Rancid si dimostrano ancora una volta legati alle proprie radici musicali e ci propongono esattamente quanto ci aspetteremmo, vale a dire una miscela esplosiva di street punk brillante e dinamico e ska punk ritmicamente piuttosto cadenzato ed emotivamente molto variegato (come passare in un batter d’occhi dal bagnasciuga scanzonato di Up To No Good, in cui riecheggiano le tastiere saltellanti del famoso Booker T. Jones e le divertenti melodie dei famigerati Beach Boys, alla malinconia crepuscolare di I Ain’t Worried), introducendo i soliti convincenti inserti reggae (Liberty And Freedom, appunto), folk (la suadente ballad di commiato The Highway), persino country (il carezzevole mandolino di Civilian Ways, in assoluto la traccia più lunga e tenera del platter). 

In fin dei conti, sebbene questo preciso atteggiamento artistico possa sembrare scontato e deludente per quanti esigono dalle band una continua evoluzione, da una realtà quale i Rancid sarebbe ingiusto e senza senso chiedere altro da quanto hanno sempre fatto e stanno facendo tuttora in perfetta coerenza, con grande passione (sopravvivere alle burrasche personali e collettive che li hanno investiti qualche anno fa è impresa che poche band al mondo sarebbero riusciti a fare, soprattutto alla luce di questi risultati) e ottima resa, tecnica ed emozionale: i Rancid sono l’essenza stessa del punk di strada, intriso dell’euforia propria dello ska e della morbidezza più tipica del reggae, costruito su riffs acidi e svelti in perfetto stile Clash e su un drumming vigoroso e affilato secondo i precisi dettami Ramones, cui s’accompagna un mood da storytellers che trae spunto e rende omaggio alla munifica tradizione cantautoriale della west coast nordamericana. 

In un’epoca musicale forzatamente progressista in cui si contrappongono (forse solo in apparenza) divinità manichee quali Profitto e Innovazione, i Rancid rappresentano un tuffo refrigerante nella storia di un genere troppo spesso confuso e associato, oggi, con un pop rock d’alta classifica che in nulla, se non in rare occasioni, ne rappresenta la natura, le motivazioni, i sentimenti. Ecco perché questi strafottenti musicisti americani ci piacciono così, li vogliamo così e proprio così siamo felici di averli ritrovati: onesti mestieranti di una musica grezza, forse, ma viva e pulsante, figlia di un passato glorioso tutto da scoprire e riscoprire. Magari, a partire proprio dai Rancid.        
 

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