Voto: 
7.7 / 10
Autore: 
Edoardo Baldini
Etichetta: 
Lava Records
Anno: 
2005
Line-Up: 

- Steven Wilson - voce, chitarra, pianoforte, basso

- Richard Barbieri - tastiere, sintetizzatori

- Colin Edwin - basso

- Gavin Harrison - batteria, percussioni



- Mikael Åkerfeldt (Opeth) - chitarra, voce

- Adrian Belew (King Crimson) - chitarra



Tracklist: 

1. Deadwing (09:46)

2. Shallow (04:17)

3. Lazarus (04:18)

4. Halo (04:38)

5. Arriving Somewhere But Not Here (12:02)

6. Mellotron Scratch (06:56)

7. Open Car (03:46)

8. The Start Of Something Beautiful (07:39)

9. Glass Arm Shattering (06:12)

Porcupine Tree

Deadwing

Gli inglesi Porcupine Tree negli ultimi anni hanno completamente rivoluzionato la visione del Progressive Rock mondiale, trovando soluzioni sempre innovative, in grado di sostenere l’evoluzione costante del genere. Le ultime due pubblicazioni Lightbulb Sun (2000) e In Absentia (2002), in particolare, mostrano come la band di Steven Wilson sia riuscita ad unire stili così diversi, ma legati ad un unico filo comune: dalla Psichedelia dei Pink Floyd all’Alternative dei Tool, dalle parti intricate Progressive alle sezioni elettroniche.
Questo Deadwing, che succede di tre anni l’uscita dell’eccezionale In Absentia, riassume tutte queste caratteristiche, creando un sound divergente da quello dei precedenti lavori; l’album si presenta ben studiato, ma risulta inferiore ai dischi sopra citati, poiché l’approccio non convince totalmente gli appassionati cultori del Rock più sperimentale.

I testi sono come al solito ricercati e l’interpretazione da parte del quartetto inglese è impeccabile: anche le comparse dei due guest musicians, Mikael Åkerfeldt degli Opeth (voce e chitarra) e Adrian Belew dei King Crimson (chitarra) costituiscono ottime prove a favore della buona riuscita dell’opera. I Porcupine Tree inoltre, attraverso la composizione di Deadwing possono allontanare le critiche di essere ripetitivi o monotoni nelle loro pubblicazioni, in quanto poche sezioni rimangono simili ai timbri di In Absentia.

La title-track Deadwing, lunga canzone di nove minuti, apre il cd e da subito sono evidenziate le chitarre acustiche ed elettriche, che si esibiscono in riffs trascinanti e coinvolgenti; nota a parte è per le tastiere di Barbieri, presenti solo a sprazzi in sottofondo perché il gruppo ha preferito valorizzare maggiormente l’elettronica rispetto agli archi e ai pianoforti d’accompagnamento che hanno contraddistinto il passato stilistico del combo. Perciò i sintetizzatori dilaganti producono un’atmosfera sognante, su cui la voce di Wilson riesce ad emergere con efficacia. Questa prima porzione dell’album non lascia percepire segni di debolezza e, anzi, rinnova completamente la musica proposta dal gruppo britannico nell’ultimo decennio di attività.

Qualche spruzzata di pianoforte si trova nel bridge della seconda Shallow, traccia tipicamente Alternative, di media durata, che conferisce uno spirito più aggressivo al lavoro, nei continui intrecci delle chitarre distorte; è solo Lazarus, il singolo europeo tratto da Deadwing, che costituisce un proseguimento di In Absentia. Lazarus riscuote dolcemente gli ascoltatori, trascinandoli all’interno del gradevole motivo originato dalle scale di pianoforte: è un brano toccante emotivamente che fa riscoprire il lato più profondo dei Porcupine Tree, quello legato alle chitarre acustiche e alla voce soave di Wilson. La batteria si incastra nella composizione senza esibirsi in virtuosismi o in riffs violenti e incisivi; essa si trasforma nella classica batteria d’accompagnamento ad una ballata acustica, facendo aumentare il sentimento che sgorga dalla complessa banalità dell’esecuzione.

Dopo una Halo poco energica e alquanto monotona, ecco sopraggiunge la lunga Arriving Somewhere but not Here, che riprende i toni di Lightbulb Sun nell’atmosfera elettronica e che si apre con una melodia unica all’interno di Deadwing, eseguita alla chitarra da Åkerfeldt in stile Damnation (Opeth). Si deve ammettere che neanche le successive Mellotron Scratch, psichedelica al punto giusto, e Open Car, impetuosa e ritmata, deludono le aspettative, poiché i Porcupine Tree dimostrano di essere padroni e maestri sia delle composizioni acustiche sia di quelle più moderne nel sound.
Spesso è imprevedibile l’evoluzione di ciascuna traccia e Wilson e compagni giocano su questo effetto per non deludere gli ascoltatori, sebbene il finale dell’opera costituisca un misto troppo eterogeneo di diversi generi musicali (Start Of Something Beautiful e Glass Arm Shattering). Sicuramente sorprendente è l’interpretazione di tutti i membri della band ai vari strumenti, da un Gavin Harrison dotato di tecnica straordinaria ma posato nell’andamento dei brani a un Barbieri partecipe a sprazzi ma fondamentale, da un Edwin pacato ma onnipresente ad un Wilson come sempre straordinario per il lavoro compiuto a livello di song-writing.
Tuttavia Deadwing lascia un alone difficile da descrivere, che appaga ma non fa considerare l’album il nuovo capolavoro della formazione inglese, che nei precedenti cinque anni aveva abituato a pubblicazioni più competitive e all’avanguardia rispetto alla totalità delle uscite Progressive mondiali.

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