Voto: 
8.7 / 10
Autore: 
Vincenzo Ticli
Genere: 
Etichetta: 
Island Records, Vagrant Records
Anno: 
2011
Line-Up: 

PJ Harvey - Primary Artist, Composer, Vocals, Guitar, Autoharp, Saxophone, Violin,  Zither

John Parish - Drums, Fender Rhodes, Guitar, Mellotron, Percussion, Trombone, Vocals, Xylophone

Mick Harvey - 
Bass, Bass Harmonica, Drums, Fender Rhodes, Guitar, Organ, Percussion, Piano, Vocals, Xylophone

Jean-Marc Butty - Drums, Vocals

Sammy Hurden - Arranger, Vocals

Greta Berlin, Lucy Roberts - Vocals

Cat Stevens - Photography

Tracklist: 

1. Let England Shake
2. The Last Living Rose
3. The Glorious Land
4. The Words that Maketh Murder
5. All and Everywhere
6. On Battleship Hill
7. England
8. In the Dark Places
9. Bitter Branches
10. Hanging in the Wire
11. Written on the Forehead
12. The Colour of the Earth

PJ Harvey

Let England Shake

Nel 2011, a due anni dall’ultima fatica, ecco tornare sotto i riflettori della critica e del famigerato music biz anche Polly Jean Harvey, colei che insieme alle colleghe Björk e Tori Amos (anch’esse redivive nello stesso anno) marcò indelebilmente la musica degli anni ’90.
Un trademark di PJ Harvey è da sempre la capacità di trasformare la rabbia in musica, un’esplosione ed un’aggressività quasi punk condensate in un rock accurato e annientante. Ma gli anni passano per tutti, e non è raro che le esperienze che si accumulano portino ad essere più riflessivi, o quantomeno meno irruenti: è questo che accade in Let England Shake. Spade e forconi vengono deposti per cedere il passo a lame più sottili, e invece che urla di battaglia adesso troviamo sospiri languidi o maturi vocalizzi volti alla creazione di un vero e proprio concept album dedicato alla sua terra, l’Inghilterra. Più che altro, l’attenzione sembra maggiormente rivolta alla guerra, a volte ironicamente colorita di toni patriottici e combattivi, ma sempre condannata in tutto il suo orrore.
 
L’album si apre con l’omonima Let England Shake, che nei suoi brevi 3 minuti condensa subito alcune delle caratteristiche salienti dell’intero lavoro: il sound, l’atmosfera, la voce stessa di PJ sembrano appartenere ad un’epoca passata, provenire da foto scolorite dai bordi bruciacchiati, mentre una melodia vagamente ragtime saltella su xilofoni picchettati e chitarre scosse come campane lontane. The Last Living Rose è una serena, malinconica elegia dedicata al suo nebbioso paese, descritto con ironica irriverenza e reso protagonista della successiva The Glorious Land. In questa canzone viene per la prima volta apertamente affrontato il tema portante dell’opera, lasciando che una chitarra nervosa e incalzante e percussioni marziali facciano da sottofondo a trombe che squillano ridicolmente nei loro richiami militari, mentre i tamburelli si scuotono e rimandano alla mente il trillo metallico degli stivali dei soldati in marcia. A sovrastare il tutto, la voce querula di PJ Harvey affiancata a quella di John Parish si rivolge quasi in preghiera all’America e all’Inghilterra, due grandi potenze mondiali che vengono rimproverate per non aver fatto abbastanza contro la guerra, utile solo a produrre distruzione, sofferenza e morte. Proprio quest’ultima troneggia minacciosa e imponente in All and Everyone, una delle canzoni meglio strutturate dell’intero album, installata su trombe malinconiche e chitarre, con armoniche profonde che si librano tristi su percussioni dall’aria quasi latineggiante che scandiscono un tempo capace di correre e incalzare durante le strofe, per poi impantanarsi e cadere con pesantezza ad ogni ritornello, come se dovessero scandire una marcia funebre, che poi è quella che compiono i soldati che avanzano sotto il sole. Il ruolo della cantante qui è quello di un bardo del nuovo millennio, capace di recitare una storia dai toni epici ora con veemenza, ora dimessamente. È un bardo anche quello che canta in England, a tutti gli effetti un canto folcloristico tratteggiato da una sottile voce mesta che si accompagna a pochi semplici accordi campestri e a vocalizzi sinistri e selvatici.
Non esistono variazioni sul tema, ogni canzone è sempre e comunque collegata all’argomento centrale analizzato sotto ogni punto di vista e, soprattutto, con una varietà di stili e toni tale da non risultare per nulla noioso quanto piuttosto capace di stimolare curiosità e interesse. Troviamo così pezzi crepuscolari e oracolari come On Battleship Hill, ballate un po’ scanzonate come The Words that Maketh Murder e macabri scenari di desolazione e morte descritti con agghiacciante serenità in Hanging in the Wire. La vecchia Harvey fa capolino nella furente Bitter Branches e la conclusiva The Colour of the Earth dipinge immagini raccapriccianti su un breve stornello medievaleggiante cantato a doppia voce, lasciando una nota agrodolce sul palato.
 
La materia è vetusta, trattata e ritrattata allo sfinimento da decenni prima che quest’album vedesse la luce, e la stessa PJ Harvey non aggiunge nulla a quanto è già stato detto. Ciò che però non può far altro che saltare all’occhio è che, nonostante tutto, le liriche sono estremamente curate, ed è sorprendente la nuova veste che il 2011 ha tenuto in serbo per lei: la veste di una chansonnier matura, capace di muoversi con agile versatilità tra i diversi stili che riesce a dominare con maestria e di creare un prodotto estremamente compatto e originale, diverso dai precedenti ma non rinchiuso in sterili e snobistici intellettualismi, quanto piuttosto permeato sempre e comunque da quella vena scanzonata e impertinente che da sempre caratterizzano le sue canzoni.
Bentornata, Polly Jean.
 
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