Voto: 
7.5 / 10
Autore: 
Emanuele Pavia
Etichetta: 
Grog Records
Anno: 
1976
Line-Up: 

- Andrea Beccari - Basso, Percussioni, Corno,Voce
- Aldo De Scalzi - Tastiere, Percussioni, Voce
- Paolo Griguolo - Chitarre, Percussioni, Voce
- Giorgio Karaghiosoff - Fiati, Percussioni, Voce
 
Guests:
- Fabio Canini - Batteria (traccia 5 e 6), Percussioni (traccia 3, 5 e 7)
- Renzo "Pucci" Cochis - Piatto (traccia 6)
- Vittorio De Scalzi - Flauto (traccia 3 e 8), Percussioni (traccia 3, 5 e 7)
- Leonardo Lagorio - Sax contralto (traccia 5 e 7), Flauto (traccia 5)
- Gerry Manarolo - Chitarra elettrica (traccia 7)
- Carlo Pascucci - Batteria (traccia 5 e 7)
- Ciro Perrino - Teste di morto e sillomarimba (traccia 3), Flauto (traccia 5)
- Cristina Pomarici - Voce (traccia 3)
 

Tracklist: 

1. Merta
2. Cocomelastico
3. Seppia: Sottotitolo/Frescofresco/Rusf
4. Bofonchia
5. Napier
6. La Floricultura di Tschincinna
7. La Bolla
8. Off

Picchio dal Pozzo

Picchio dal Pozzo

I Picchio dal Pozzo sono tra le band italiane più originali tra quelle che si sono cimentate nel suonare progressive rock, stile musicale che rese famosa la penisola negli anni '70 grazie a band quali Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso e Area, seppur il loro stile sia molto differente da quello delle band più note di questa scena. Se Premiata Forneria Marconi e Banco del Mutuo Soccorso hanno proposto un progressive rock molto classico, in linea con lo stile del progressive britannico, mentre gli Area hanno consolidato la loro fama come una band jazz-rock tra le più sperimentali e dotate di quegli anni, i Picchio dal Pozzo sono forse gli unici (insieme ai Napoli Centrale) a poter essere accostati alla scena di Canterbury – in particolare ad acts quali Soft Machine, Hatfield and the North, Gong e Henry Cow – senza esitazione.
 
La band si forma in Liguria, precisamente a Genova, nel 1973, per opera dei musicisti Andrea Beccari, Aldo De Scalzi, Paolo Griguolo e Giorgio Karaghiosoff, anche se per questa band non viene scelto subito un monicker. Infatti solo successivamente, poco prima della registrazione del loro esordio tre anni dopo, decidono di chiamarsi Picchio dal Pozzo, per tributo all’immagine di un cavaliere in armatura in piedi su un pozzo su una locandina da cinema su cui Karaghiosoff aveva scritto una poesia (poesia che diventerà poi parte del testo del brano Seppia). La proposta musicale dei Picchio dal Pozzo è qualcosa di totalmente differente dal tipico progressive rock italiano: i testi sono surreali e non-sense, mostrando un gusto in quest’ambito molto vicino a quello di Gong e dei Soft Machine dei primi due dischi, e sono accompagnati da un sound apertamente debitore al progressive di Canterbury di cui tutti e quattro i musicisti sono estimatori, con tastiere e fiati predominanti sull’impianto chitarristico del gruppo nonché con particolari effetti vocali e influenze psichedeliche. A ennesima riprova dell’importanza della scena di Canterbury sul complesso, nel 1976 debuttano con questo Picchio dal Pozzo dedicandolo a tal Roberto Viatti, riferimento al ben noto Robert Wyatt dei Soft Machine.
 
Il disco (suddiviso in due lati, Hay Fay il lato A e Fay Hay il lato B) si apre con Merta, particolare brano in cui si possono subito riscontrare il forte uso di fiati e tastiere e le sperimentazioni vocali dei membri della band (tutto il quartetto infatti apporta il proprio contributo nella sezione vocale), che per circa tre minuti introducono l’ascoltatore nel brano successivo, cui si lega con una conclusione in fade-out di corno e tastiere: è quindi la volta di Cocomelastico, pezzo quasi interamente strumentale – se si eccettuano alcune poche note cantate a circa metà brano, che ricalcano quelle della filastrocca Oh quante belle figlie, Madama Doré, e alcuni gargarismi poco dopo –, dominato dalle tastiere di De Scalzi e dai fiati, in cui fanno la loro prima apparizione anche le percussioni (suonate anche queste da tutti i membri del complesso), in cui emerge con forza lo stile musicale tra jazz e progressive che ha reso i Picchio dal Pozzo un unicum nel vasto panorama italiano. Le tastiere aprono il brano successivo, la suite Seppia, in cui per il primo movimento (Sottotitolo) duettano con i fiati creando un tessuto musicale che ricorda molto i Soft Machine di Fourth, per poi esplodere in un brano complesso (Frescofresco), dalle influenze psichedeliche, dominato da voci distorte e particolari, mentre gli strumenti si amalgamano in modo impetuoso e quasi confusionario al di sotto di esse, accompagnati da strani effetti sonori dal mood spaziale che riportano alla mente i Gong. Segue a quest’esplosione un flauto dolce, suonato da Vittorio De Scalzi, che prelude a Rusf, movimento più etereo, in cui viene recitata la poesia non-sense scritta da Karaghiosoff tempo addietro; la voce si disperde poi in un’eco lontana, e infine si abbandona a una conclusione impalpabile e mistica, degna fine di questa suite, dove l’impianto vocale conduce gli strumenti in una melodia sognante e trascinante. Con la breve parentesi di chitarra e flauto di Bofonchia si chiude il lato Hay Fay.
Il lato B esordisce invece con una melodia di quattro flauti (suonati da Giorgio Karaghiosoff, Leonardo Lagorio, Ciro Perrino e Aldo De Scalzi), che vengono poi sostituiti dai fiati, dalla tastiera e dalle percussioni per dare via a un altro brano dalla marcata componente fusion, Napier, uno degli apici del platter, che riporta alla mente in certi passaggi anche gli italiani Area. Questo pezzo è composto da diverse sezioni, in cui si alternano il pianoforte e i fiati in maniera schizofrenica e ottima al contempo, con deliri musicali che vengono interrotti solo dal cantato vellutato a metà brano per poi rigettarsi in un amalgama di sax e di tastiera per creare un’atmosfera particolare e quasi bambinesca, anche grazie alla presenza del flauto dolce. Dolci note di chitarra aprono il seguente La Floricultura di Tschincinnata, la cui prima metà mostra una presenza più marcata dell’impianto vocale che poi ridà spazio a un jazz-rock ora delirante e caotico, ora suadente e ordinario. La Bolla è un altro ottimo pezzo, in cui il pianoforte accompagna per tutta la durata del brano gli altri strumenti, che fanno capolino alternandosi a vicenda creando un’atmosfera onirica e sfuggente, lontana dalla frenesia dei brani precedenti; il disco è infine chiuso da Off, che seguendo la scia di La Bolla vede come protagonista assoluto il pianoforte, che si cimenta in assoli lontani dal risultare meramente virtuosistici bensì rafforzando l’aura sognante della traccia precedente, il tutto accompagnato dalla voce e soprattutto dal flauto.
 
I Picchio dal Pozzo, seppur con il loro lavoro omonimo abbiano donato alla musica italiana uno degli esempi migliori di progressive rock nostrano, purtroppo non godranno mai di tanto successo, né in patria né all’estero, offuscati da gruppi molto più blasonati. Ma il mancato successo di questa band non è sinonimo di mancanza di personalità, originalità e creatività nella proposta, ed è per questo che a distanza di oltre trent’anni dalla sua pubblicazione, Picchio dal Pozzo rimane una pietra miliare della musica rock italiana e una perla imprescindibile per gli amanti della scena.
 

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