Voto: 
9.0 / 10
Autore: 
Paolo Bellipanni
Genere: 
Etichetta: 
Geffen
Anno: 
1978
Line-Up: 

- David Thomas - Voce
- Tom Herman - Chitarra
- Scott Krauss - Batteria
- Allen Ravenstine - Tastiere, Elettronica, Sax
- Tony Maimone - Basso

Tracklist: 

1. Non Alignment Pact
2. Modern Dance
3. Laughing
4. Street Waves
5. Chinese Radiation
6. Life Stinks
7. Real World
8. Over My Head
9. Sentimental Journey
10. Humor Me

Pere Ubu

The Modern Dance

Il mondo balla sotto le acide luci di un locale sotterraneo in cui si consuma la danza più malata della storia: The Modern Dance. Sul palco, sporco e scheggiato, suona una band di giovani avanguardisti figli dell'umore iconoclasta dell'America di fine '70: David Thomas alla voce, Tom Herman alla chitarra (sostituto del grande Peter Laughner, morto nel 1976), Scott Krauss alla batteria, Allen Ravenstine alle tastiere e Tony Maimone al basso. Si facevano chiamare Pere Ubu (nome derivato dalla maschera Ubu Roi del commediografo francese Alfred Jarry) e quando la storia della musica tutt'ora sente pronunciare quel nome ancora trema in preda alle convulsioni. Era il 1978 e a Cleveland prendeva vita uno dei più allucinanti e seminali esperimenti del suono moderno: album concettualmente "deviato" in cui tutto ciò che precedentemente aveva rappresentato il Rock viene fuso, frammentato e annichilito nel più schizoide dei minimalismi compositivi, The Modern Dance è lo shock anafilattico della musica contemporanea, è l'allucinazione visionaria che apre l'epoca più frastagliata e affascinante della popular music, è l'inquietudine metropolitana dell'individuo che si scontra brutalmente con la realtà, con un mondo che - sotto i passi di questa danza mortale - viene distrutto e accartocciato.

Specchio del caos industriale di Cleveland e della sua alienazione esistenziale, i Pere Ubu hanno per primi aperto i cancelli degli anni '80 anticipandone stili, influenze, concetti, sperimentazione, ricerca: nella loro agghiacciante alchimia in cui psichedelia, garage, punk, industrial e avanguardia si violentano in un delirio di forme impazzite e brutali esplosioni melodiche, Thomas e soci hanno impresso in dieci, brevi canzoni tutto ciò che il Rock sarebbe diventato nei successivi quindici anni: The Modern Dance, che già dal titolo lascia presagire la sua incommensurabile carica innovativa e futurista, è la profezia in cui avanguardia colta e musica di consumo si incontrano e lasciano fiorire i loro frutti malati, anticipando notevolmente tutte quelle serie di sperimentazioni che troveranno terreno fertile nella più ricercata new-wave ottantiana.

La danza moderna è madida, sporca, visionaria, urlante, ubriaca, puzzolente: centro nevralgico in cui profeticamente ciò che il rock era stato fino ad allora si incontra con ciò che esso diventerà con gli anni a venire, The Modern Dance scardina qualsiasi logica predisposta e lascia l'atto compositivo "vittima" dell'irrazionalità e della follia sperimentatrice delle forze inconsce. Nelle agghiaccianti orge strumentali a cavallo tra delirio garage-punk ed esaltazione dada (le lezioni di Captain Beefheart sono qui più seminali che mai) che compongono i dieci "schizzi" del disco, i Pere Ubu studiano e forgiano una formula Rock urticante e avanguardista, scevra da qualsiasi impulso commerciale e brutalmente proiettata verso la costruzione di un ideale artistico completo e totalizzante, oltre che in grado di raccogliere l'evoluzione della sperimentazione musicale underground in un gigantesco labirinto di visioni e di onirismi industrali.
Un disturbante ghigno elettronico su cui esplode l'ensemble strumentale dei Pere Ubu e The Modern Dance muove i suoi primi sgraziati passi: Non Alignment Pact ci introduce all'ascolto del disco sciorinando il letale mix di garage-rock, post-punk ed effettistica industriale che verrà costantemente ripreso durante le restanti canzoni; il canto di Thomas - emblema, nelle sue disorientanti intonazioni, della cosiddetta "perdita dell'aureola" musicale alla fine dei '70 (il prog rock ne sa qualcosa?) - guida un riffing dinamico e ballabile ma ancora privo delle più dense contaminazioni elettroniche/industriali che prenderanno invece piede col successivo capolavoro Modern Dance. L'impronta garage comincia qui a sbiadire sotto i colpi del sintetizzatore di Ravenstine che va a scuotere e azzannare i sottostanti fraseggi chitarra/basso del brano; a prendere il via è un'alienante psichedelia metropolitana, un onirismo tutt'altro che sognante e che lascia penetrare nel songwriting dei Pere Ubu un crescente senso di inquietudine e di irrazionalità concettuale-compositiva (il crescendo strumentale che precede la conclusione del brano è un incubo ad occhi aperti).

In quest'alogismo della forma, nell'estasi schizofrenica celata in un deviante avan-spettacolo musicale prende di seguito vita uno degli esperimenti più shockanti di The Modern Dance: Laughing, nelle sue allucinazioni free-jazz, è la prima vera e propria emersione dell'impeto avanguardistico di Thomas e soci, un concentrato di alienazione atmosferica e di ricerca sonora che, seguendo e rielaborando la seminale lezione dada-rock impartita dieci anni prima da Captain Beefheart, proietta la sperimentazione del disco verso lidi già esplorati ma mai così disturbanti e stranianti (l'apertura e tutti i successivi intermezzi cacofonici - nel loro enigmatico incrociarsi di sax, effetti elettronici e taglienti apparizioni chitarristiche - sono pura overdose avanguardista). Ma anche nei suoi andamenti più orecchiabili e "umani", sebbene costantemente avvolti in una futurista ricerca formale e melodica - come quella su cui esplodono i trascinanti capolavori post-punk Street Waves e Life Stinks (unico brano scritto da Peter Laughner) - The Modern Dance nasconde un delirante seme della follia, sempre pronto a destabilizzare e a frammentare le (dis)armonie strumentali dei Pere Ubu. Ne è ulteriore esempio Chinese Radiation con la sua incredibile varietà espressiva che in tre minuti e mezzo sballottola il brano da una lenta apertura acustica a strazianti impennate elettronico-concrete (l'esplosione delle urla della folla campionata a metà del brano sono un elogio della più insana genialità), fino a quel "commovente" finale in cui il pianoforte di Ravenstine disegna un intreccio melodico lento e toccante, quasi come se si trattasse di un fragile respiro abbandonato in un'orgia di rantoli e gemiti.

Marziale e ancora più straniante è invece Real World, in cui assistiamo ad una delle migliori prove vocali di Thomas (mai così cabarettistico e istrionico) e di tutto l'ensemble strumentale che, andando a tessere un mood tetro e melodicamente più accattivante del solito - sempre grazie all'alienante simbiosi tra le allucinazioni industriali di Ravenstine (in questo caso davvero strazianti) e gli intrecci melodici di sottofondo - precede l'atmosfera, mai così lisergica e sbiascicata, di Over My Head, la confessione d'amore più sgraziata del Rock, un continuo rantolare di voci alcoliche, stridenti effetti metallici e lenti rintocchi di chitarra: è la musica della strada, del rifiuto anti-borghese, dell'industria sociale e musicale. E' il suono che marcisce sotto la luce a intermittenza dei lampioni notturni mentre, sotto di essi, le bottiglie di vetro ormai vuote del loro elisir vengono spaccate sul suolo; e poi un lamento dilaniante che provoca all'interno una smorfia insostenibile che fa raggrinzire lo stomaco e costringe gli occhi a rimanere chiusi: è Sentimental Journey, l'inarrivabile capolavoro di The Modern Dance, un colosso di psichedelia post-industriale inquietante e aliena che ci fa inabissare nel significato e nell'origine stessa della Danza Moderna. Violenta orgia in cui musica concreta, esplosioni impro-jazz, noise, cabaret ed elettronica raggiungono il loro perfetto stato d'unione, Sentimental Journey scavalca con un balzo la razionalità musicale esplodendo in un caos di suoni privi di senno, di voci violentate e atmosfere provenienti dal più insano degli inferni metropolitani.

The Modern Dance è il simbolo della "rovina" del Rock alle porte degli anni '80, è il Rock che - nella sua dirompente estasi nichilista - nega se stesso, è il testamento spirituale di un'epoca e la visionaria apertura di un'altra. Rivoluzionario nei concetti, nella schizoide alchimia stilistica, nelle tematiche e nelle atmosfere evocate, il capolavoro dei Pere Ubu è, assieme a Velvet Underground & Nico (inutile parlare anche dell'influenza giocata da Lou Reed e John Cale su Thomas e compagni), una delle più sconvolgenti opere dell'avanguardia underground del ventennio '60-'70, in quanto in grado di riassumerne aspetti e contraddizioni per poi catapultarle in una dimensione del tutto nuova, una tabula rasa che azzera l'essenza stessa del Rock, lo distrugge, lo estirpa dai suoi più naturali contesti e ne suggerisce una nuova interpretazione assolutamente d'avanguardia. Maniaci della sperimentazione più brutale e al contempo del recupero (ora più serioso, ora più grottesco) del classic-rock a stelle e strisce, i Pere Ubu sono il punto di non ritorno di ciò che significò la ricerca musicale colto-popolare negli anni '70, di quel massacrante connubio di disagio esistenziale, satira dissacrante e inquietudine creativa che, soprattutto grazie alle innovazioni di Thomas e Ravenstine, ha indelebilmente finito per influenzare gran parte di quella new wave sperimentale allora appena alle porte (The Pop Group e compagni..).
Imprescindibile pietra miliare del rock, e del non-rock.

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