Voto: 
6.0 / 10
Autore: 
Paolo Bellipanni
Etichetta: 
Roadrunner
Anno: 
2011
Line-Up: 

- Mikael Åkerfeldt - chitarra, voce, musiche
- Martin Mendez - basso
- Martin Axenrot - batteria
- Fredrik Åkesson - chitarra
- Per Wiberg - synth, tastiere

Tracklist: 

1. Heritage
2. The Devil's Orchard
3. I Feel the Dark
4. Slither
5. Nepenthe
6. Haxprocess
7. Famine
8. The Lines In My Hand
9. Folklore
10. Marrow of the Earth

Opeth

Heritage

Molti se lo aspettavano, tanti (forse troppi, me incluso) lo temevano, altri lo desideravano. Che la carriera degli Opeth si sarebbe infine arenata sull'ideale musicale di quest'ultimo Heritage, forse era destino. Di sicuro, la band di Mikael Akerfeldt ha dato la svolta stilistica più netta e palese della propria carriera, creando tutti i presupposti per un'uscita discografica destinata ad attirare a sè una quantità indecifrabile di diatribe e commenti. Decimo lavoro in studio della band svedese, Heritage è il punto di non ritorno di una delle più grandi formazioni scandinave degli ultimi vent'anni. Forse la migliore, anche espandendo il limite geografico al di là della penisola nordica. Inutile dire che, a più di quindici anni dal primo ed indimenticato Orchid, Akerfeldt e soci si ripresentano ancora una volta sotto sembianze completamente diverse ma, guarda un pò, riconoscibilissime. Perchè si possono cambiare stili, influenze, metodi e line-up, ma il marchio Opeth continua sempre a brillare di luce propria, in un modo o nell'altro.

Heritage, ovvero l'eredità, il patrimonio. Più semplicemente, Heritage è ciò che resta, è la reliquia simbolica di un linguaggio artistico che dopo quasi vent'anni è il fantasma di se stesso. Parlare di decadenza sarebbe esagerato, ma mai come in questo caso l'universo opethiano si ritrova così vistosamente svuotato della sua più vibrante interiorità. Punto di svolta di una carriera che già da tempo dava (più o meno validi) indizi sulle sue coordinate future, Heritage è il compimento del concetto di evoluzione secondo il maestro Mikael Akerfeldt. A renderlo tangibile è prima di tutto la copertina dell'album (come al solito realizzata dal fido Travis Smith), che cerca in qualche modo di rappresentare l'attuale stato globale degli Opeth: un albero a cui sono appesi i volti degli attuali componenti della band, con il capoccione di Per Wiberg pronto a cadere in terra visto il suo abbandono immediatamente successivo alla registrazione dell'album. Accumulati sul suolo, appaiono anche i teschi degli ex membri della band. Più in basso ancora, le radici dell'albero-presente degli Opeth si conficcano nella terra e diventano i rami fluttuanti di un inferno ormai dimenticato: il loro passato death-metal. Una cover stracolma di simbolismi che rappresenta un elemento chiave per la reale comprensione del nuovo universo opethiano.

Il definitivo approdo al prog (rock o metal che sia) è la prima componente fondamentale su cui si fonda Heritage: del death metal e delle più estreme derivazioni passate nemmeno l'ombra, così come delle oasi atmosferiche e delle travolgenti cavalcate strumentali. Impossibile è, del resto, creare un parallelismo "semantico" con i precedenti album, neanche col più concettualmente vicino Damnation, album guidato da intenzioni simili ma diametralmente opposto a livello di sensibilità e atmosfere. Questo perchè Heritage è il disco più sabbioso, secco e paradossalmente duro partorito dagli Opeth in tutti questi anni. Eppure manca la rabbia, manca lo sgomento, mancano la malinconia e l'abbandono emotivo.
Cosa resta, allora, in Heritage? Lo dice la parola stessa: semplici retaggi compositivi, qui rielaborati in una veste esteriore che distrugge il presente e inizia il suo scontato percorso a ritroso verso il periodo d'oro del prog inglese tanto anelato dal frontman opethiano. Retaggi talmente impoveriti da spingere verso l'oblio finanche il growl "lirico" di Akerfeldt, qui sostituito solo da andamenti declamatori e vocalismi netti e rombanti. Ma ad essere dimenticate sono tante altre cose, sebbene si tratti di un disco in ogni caso affascinante e misterioso.

Gli arrangiamenti sono frutto di una mente compositiva come al solito brillante e unica per ricerca strumentale e movimento d'insieme e se tutto, in Heritage, è perfettamente riconducibile all'Akerfeldt-style più prog, c'è una cosa che separa palesemente l'ultimo lavoro dai precedenti. Una separazione, però, maledettamente tragica. Perchè Heritage, per quanto faccia sfoggio di una classe sopraffina, è il primo lavoro degli Opeth in cui il coinvolgimento emotivo, l'atmosfera drammatica e la catarsi interiore sono praticamente assenti. Tutto scorre verso un punto di fuga nuovo e così profondamente estraneo da trasportare l'ascoltatore in un ambiente musicale come non mai freddo e distaccato; perchè se prima a pungere e a rapire era la perdizione emotiva, adesso i veicoli d'impatto opethiani sono esclusivamente l'ipnosi e il velo psichedelico.
Heritage è un disco strapieno di arabeschi, di decorazioni strumentali sfarzose e appariscenti (la multiforme The Devil's Orchard, che sembra uno scarto ammorbidito di Ghost Reveries); le atmosfere decadenti e meravigliosamente malinconiche e inquiete dei precedenti album svaniscono di colpo per lasciare spazio ad ambienti desertici, ad una musica che non è più pioggia tragica ma sabbia esotica dura e asciutta. E se Famine è (per buona metà) un tributo palese ai King Crimson più inquietanti di Red e Larks' Tongue In AspicFolklore, I Feel the Dark e la conclusiva Marrow of the Earth sono ritorni distaccati ma intensi verso le dolci frammentazioni interiori di Damnation e verso quei frangenti strumentali semi-acustici e malinconici di cui erano pervasi (con risultati ovviamente sublimi) i vari Morningrise e My Arms Your Hearse. Ma non tutto in Heritage è questo fluttuare semi-acustico, perchè un brano come Slither è una premuta d'acceleratore totale e inaspettata: i ritmi si innalzano, le trame chitarristiche si velocizzano, la voce è più costante e meno evocativa; aspetti che si ritrovano pienamente anche nella seconda travolgente metà di The Lines of My Hand, tra i momenti più convincenti dell'album (assieme allo splendido finale di Haxprocess, intimo e pervaso di un'emotività che sembrava definitivamente smarrita).

Per il resto, Heritage è una ripresa costante degli stessi stilemi compositivi precedentemente elaborati e qui trasformati in un'alienante ma fredda danza desertica: le linee di chitarra si ripetono con sconcertante somiglianza, le tastiere di Wiberg fanno lo stesso, accendendo la solita luce dietro le scorribande strumentali di Akerfeldt e soci, ottenendo come effetto una reiterazione costante dei medesimi canoni compositivi. Heritage sa essere tortuoso e incalzante e allo stesso tempo soporifero, innova e sperimenta ma finisce in seguito per cadere nelle sue stesse trappole espressive: disegna immagini affascinanti ma effimere, sembra stracolmo di sollecitazioni ma alla fine appare vuoto e scarnificato, si avvale di una raffinatezza esecutiva senza precedenti ma si perde nella costante ripetizione delle stesse atmosfere, degli stessi arabeschi, delle stesse sfumature.

Che si tratti di un allarme o di una gloria ritrovata, di un'ascesa artistica o di un inesorabile declino, spetta al singolo ascoltatore deciderlo. Di sicuro, con Heritage gli Opeth hanno portato a compimento quella rivoluzione stilistica che già da tempo era nell'aria ma che non si era mai realmente concretizzata (e questo in primis perchè l'esplosione del travolgente Watershed aveva cambiato per l'ennesima volta le carte sul tavolo opethiano). Partendo dal presupposto che la svolta solo prog-e-niente-altro di Akerfeldt e compagni è sempre (e ribadisco sempre) stata prevista e dichiarata prima dell'uscita di qualunque album da Deliverance in poi, questa volta le chiacchiere e le previsioni di mezzo mondo si sono realmente avverate. Una sola cosa è sicura, una sola: mai come con Heritage gli Opeth spaccheranno in due il proprio pubblico.

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