Voto: 
6.0 / 10
Autore: 
A. Giulio Magliulo
Etichetta: 
Drag City
Anno: 
2012
Line-Up: 

Al Cisneros - bass, vocals

Emil Amos - drums

Lucas Chen - Cello

Jory Fankuchen - Viola, Violin

Jackie Perez Gratz - Cello

Robert Aiki Aubrey Lowe - Tamboura, Vocals

Kate Ramsey - Vocals

Lorraine Rath - Flute

Homnath Upadhyaya - Tabla

Steve Albini - Engineer

Tracklist: 

1. Addis - 5:32

2. State of Non-Return - 6:05

3. Gethsemane - 10:23

4. Sinai - 10:19

5. Haqq al-Yaqin - 11:24

OM

Advaitic Songs

I suoni composti di Advaitic Songs, puliti e caldi come ripresi in analogico, non sono solo merito di quella vecchia volpe di Steve Albini, è anche l’insieme degli strumenti utilizzati in queste tracce che si presta ad un ascolto lontano dalle sonorità paludose dei primi (tre) lavori degli Om: flauti, tamboura e tablas, viole, violini e violoncelli, tutti suonati da personaggi che provengono da mondi diversi. Infatti per il loro ultimo e pretenzioso album Al Cisneros ed Emil Amos han chiamato a corte esecutori di classica contemporanea, membri di formazioni di metal atipico e maestri nepalesi.

Certi di non farsi mancare niente, i nostri han deciso di continuare il loro viaggio verso il nulla trascendentale, percorso già cominciato con l’ottimo God is Good, album che se in qualche modo sottolineava una necessaria esigenza di evoluzione da un passato che praticamente si reiterava, non tagliava del tutto i ponti con i suoni che erano sempre stati il marchio di fabbrica Om, la loro identità e  per gli ascoltatori più evoluti del panorama stoner,  ipnotica fonte di piacere.

Con Advaitic Songs ci troviamo di fronte a composizioni moloch che spaziano in lungo e largo su una musica che si autoreferenzia rituale assecondando una compiaciuta prospettiva occidentale  cinematografica e psichedelica: questo è il nostro Oriente, questo il nostro viatico spirituale, questa è la nostra capacità di elevarci in una sfera musicalmente e concettualmente più alta rispetto al gesto sludge che magari vi sareste aspettati, sembrano dire gli Om!

Ben venga allora la lunga quanto sconsolante prece mesopotamica di Addis confortata dagli archi in penombra, dalle percussioni, dal basso che lascia immaginare sbuffi dub che non esistono e chitarre alla ultimi Earth, che, anch’esse, ovviamente non esistono; ben vengano le sospensioni estatiche, gli assolati arabeschi circolari, i bordoni che non conducono mai a nessuna agognata esplosione e le vocals morriconiane alte al cielo in Gethsemane, ma se non fosse stato per la parte finale di quest’ultima, in cui il drumming fantasioso di Amos riempie lo spazio con una ritmicità riconoscibile da ‘noi occidentali’ o per la seconda traccia State of Non-Return, che pur presentando i suoi ghirigori mediorientali non rinuncia al basso rutilante di  Cisneros, questo disco rischiava di ottenere molti meno consensi di quanti ne avrà.

Forse gli Om si stanno prendendo troppo sul serio con queste fantasie teosofiche e con le suggestioni strumentali etniche che se prima erano spezie nella loro musica e donavano colore, ora vogliono diventarne l’ingrediente principale.

Pur apprezzando sempre il coraggio e la capacità di voler cambiare per non morire artisticamente se si ha ancora qualcosa da dire, non necessariamente gli Om per rendere credibile il tentativo di voler ascendere ad una casta più alta di quella (genericamente) metal devono finire per somigliare per contenuti ad una brutta copia dei Current 93 o per forma a dei Dead Can Dance fuori fuoco: esiste una quantità immensa di musica etnica e religiosa da riscoprire per questi scopi; forse chi ascolta gli Om vorrebbe ritrovare un pò di doom.

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