Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Edoardo Baldini
Genere: 
Etichetta: 
Century Media
Anno: 
2005
Line-Up: 

- Warrel Dane - voce
- Jeff Loomis - chitarra
- Steve Smyth - chitarra
- James Sheppard - basso
- Van Williams - batteria


Tracklist: 

1. Born
2. Final Product
3. My Acid Words
4. Bittersweet Feast
5. Sentient 6
6. Medicated Nation
7. The Holocaust of Thought
8. Sell My Heart for Stones
9. The Psalm of Lydia
10. A Future Uncertain
11. This Godless Endeavor

Nevermore

This Godless Endeavor

A due anni da quello strano Enemies of Reality (2003), considerato dalla critica o negativamente per la produzione, o positivamente per l’umiltà dimostrata dalla band, capace di comporre pezzi di elevato livello tecnico nonostante una registrazione abbastanza deludente, i Nevermore di Warrel Dane ritornano con un album che farà parlare molto di sé nella scena Metal odierna.
This Godless Endeavor si presenta come lavoro malvagio, una creazione Post-Thrash dotata di spiccata musicalità e connessa con l’approccio violento e malinconico del capolavoro Dead Heart in a Dead World. Il merito di questo disco non è solo del quintetto americano, ma anche di Andy Sneap, produttore di Opeth, Arch Enemy e Killswitch Engage, che ha saputo credere nella band di Seattle sebbene il calo del precedente full-lenght non facesse ben sperare.

Una devastante esperienza sonora, dove l’aggressività dei riffs si fonde con le melodie trasmesse dalle chitarre e dai cori, ben discostanti con il contesto dell’opera, parecchio vicina alle composizioni vorticose dei Meshuggah.
Con Born ci si ritrova già all’interno di This Godless Endeavor e si nota che la linea seguita dai Nevermore non si allontana dall’esasperazione tecnica dei predecessori: l’inizio stupisce alquanto per la presenza di una voce simil growl modificata elettronicamente, e sembra quasi di ripercorrere il cammino degli At the Gates o dei The Haunted finché i bridge e i ritornelli non si fanno spazio nel tessuto distruttivo, disegnato dalle chitarre mobili e taglienti.
Ciascuna traccia delinea riffs che ripercorrono la carriera del gruppo, in quanto lo stesso album è un riassunto di ciò che Warrel e compagni hanno scritto nei dieci anni che separano la pubblicazione del 2005 dal primo Nevermore: This Godless Endeavor non prosegue l’evoluzione avviata dai precedenti lavori e arrestatasi con Enemies of Reality.
Le tracce sono sì apprezzabili e coinvolgenti, ma non si distinguono radicalmente dalle sezioni tenebrose di Dreaming Neon Black, qui riprese dalla intricata Final Product; persiste anche la melodia dello stupendo Dead Heart in a Dead World: nulla perciò è cambiato di quei Nevermore che la critica ha sempre esaltato per la semplicità con cui sono emersi, per la compattezza delle composizioni e per il virtuosismo spinto al massimo livello in sede studio.
I passaggi tirati in doppia cassa dominano sotto le distorsioni delle chitarre estreme, che a volte si abbandonano a lente distensioni sognanti e ricercate, come nella terza My Acid Words, dotata di uno sviluppo penetrante e di un assolo velocissimo in pieno stile Post-Thrash.

Immancabili anche le ballate che tanto avevano sconvolto i canoni della musica del combo in Dead Heart in a Dead World: ecco quindi le splendide Sentient 6 e Sell My Heart For Stones, provviste addirittura di un pianoforte che modifica particolarmente il sound della band attraverso le sue melodie inedite. Questi sono gli unici episodi importanti per l’evoluzione del timbro dei cinque americani, in quanto introducono elementi inaspettati, ma capaci di mantenere una certa continuità con canzoni come The Heart Collector o Believe in Nothing. Impeccabile Dane sia nella stesura dei soliti testi incisivi e ricchi di immagini forti, sia nell’interpretazione di ciascun pezzo, modulando la voce sui ponti con espressività. Tutte le soluzioni stilistiche presenti in entrambe le canzoni sono impregnate di una desolazione che colpisce profondamente gli ascoltatori, per il modo in cui viene trasmessa e per le emozioni che trasporta.
Si riprende però senza respiro con altri capitoli altrettanto esaltanti e provvisti di doppie voci intrecciate, spesso filtrate o sporche, che creano buoni effetti prima di refrain distruttivi e violenti. Distorsioni si susseguono a pause che rompono l’andamento di brani come The Psalm Of Lydia e che conferiscono un ritmo particolare, aggressivo quanto trascinante.

Sorprendenti le due tracks che concludono This Godless Endeavor e che designano forse una nuova rinascita della formazione statunitense, sempre seguita da milioni di fans in tutto il mondo nonostante diversi problemi che si manifestano costantemente in sede live. Certamente anche i concerti sono fondamentali per far apprezzare al grande pubblico l’operato di un gruppo, ma album di studio ben prodotti e pensati costituiscono probabilmente la massima prova di difficoltà per musicisti che, per quanto siano abili ed esperti, potrebbero non essere compresi dalla maggior parte degli ascoltatori. I Nevermore erano pronti ad accogliere una momentanea disfatta dopo la pubblicazione di Enemies of Reality, ideato ottimamente ma penalizzato dalla produzione: con This Godless Endeavor il problema non si ripeterà poiché i fans, delusi dalle esibizioni live, non saranno traditi dall’anima impetuosa e riflessiva dei Nevermore.

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