Voto: 
6.7 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Century Media
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Warrel Dane - vocals
- Jeff Loomis - guitar
- Jim Sheppard - bass
- Van Williams - drums

Tracklist: 


   1. The Termination Proclamation
   2. Your Poison Throne
   3. Moonrise (Through Mirrors Of Death)
   4. And The Maiden Spoke
   5. Emptiness Unobstructed
   6. The Blue Marble And The New Soul
   7. Without Morals
   8. The Day You Built The Wall
   9. She Comes In Colors
  10. The Obsidian Conspiracy

Nevermore

The Obsidian Conspiracy

Finalmente il tanto atteso ritorno dei Nevermore, innegabilmente una delle formazioni metal più solide e coinvolgenti di sempre, un punto di riferimento monolitico per il settore estremo e non solo. Nonostante i capolavori pubblicati in passato, però, è arrivato anche per loro il momento di rilasciare un album decisamente sottotono e vediamo perché.

Nei cinque anni di distanza che separano il nuovo disco The Obsidian Conspiracy dal precedente This Godless Endeavor sono avvenuti alcuni fatti: in primo luogo i problemi di salute del cantante Warrel Dane, per fortuna risolti, e poi la dipartita del chitarrista Steve Smyth, che ha riportato i Nevermore alla condizione di quartetto. Ma soprattutto, il debutto da solisti delle due menti del gruppo, Dane per l'appunto e il chitarrista Jeff Loomis, che evidentemente cercavano spazi personali anche al di là della formazione principale che hanno così messo da parte per un po' (se si eccettua un riuscito live album).
Al momento non è ancora dato sapere se questo impegno solista deve aver preso più risorse creative del previsto al gruppo, oppure se esso è la prima conseguenza di un calo di entusiasmo generale dei due statunitensi nei confronti della loro creatura, con la seconda che consiste in un ritorno in studio dall'esito molto meno ispirato che in passato: infatti con il nuovo album i Nevermore sembrano non solo accontentarsi di "timbrare il cartellino" e fare un disco di mestiere, ribadendo i caratteri essenziali del loro trademark, ma anche sforzarsi di meno sul lato creativo, rinunciando ai tratti più complessi e caratteristici del loro sound in favore di una semplificazione generale dello stile del gruppo.
Non che questo in sè sia un male, ci mancherebbe. Anzi, magari evitare di ripetersi e sperimentare una svolta melodica, magari ripescando qualche affinità con un disco come Dead Heart in a Dead World (occasionalmente "citato" nell'attitudine e non), può essere molto interessante. Ma il fatto che suonino decisamente più lineari e meno intricati, in definitiva più accessibili pur non rinunciando a sfuriate pesanti e aggressive, tradisce una certa carenza di idee nel songwriting, che si fa più ripetitivo e alle volte piatto, conclusione brusca di una parabola discendente.

Gli arrangiamenti e le composizioni sono in generale più prevedibili e debitrici del loro passato, i riff suonano più ordinari, gli assoli sono più contenuti e la prestazione vocale di Dane è altalenante (ma a sua scusante c'è il fatto che ormai canta ad alti livelli da oltre vent'anni). Le canzoni sono anche mediamente più brevi che in passato, proprio per questa maggiore essenzialità dei contenuti.
Addirittura sono non pochi i casi in cui si avverte una sensazione di dejavù, come se Loomis e Dane non trovassero abbastanza spunti per un riffing incisivo o per assoli altrettanto catturanti e maestosi che in passato, e quindi decidessero di metterci qualche pecetta riciclando qualcosa dagli altri lavori.
Ma, attenzione, alla fine l'album non è brutto e si lascia ascoltare, in qualche occasione riuscendo anche a coinvolgere parecchio, e rimane certo un disco ben eseguito e ottimamente prodotto (da Peter Wichers dei Soilwork, che aveva collaborato anche nel disco solista di Dane, e il solito Andy Sneap); più che altro si tratta del disco più debole della loro discografia e quello meno vitale e creativo, un'alternanza di pezzi banali o con spunti convincenti che non sarebbe stato male approfondire.

La prima parte del disco comunque va in crescendo.
L'iniziale The Termination Proclamation non è una delle opening migliori, tre minuti appena fatti solo per ripetere il ritornello (la cui epicità oscura comunque si gusta) e i cliché dei riff, non per degli intenti radiofonici ma perché manca sinceramente la materia prima a disposizione e si riutilizza quel poco che è stato impiegato mantenendo il tutto all'osso. Il risultato è decisamente migliore nelle successive Your Poison Throne, grazie sia al carismatico chorus che ai riff oscuri più variegati, e Moonrise, con riff che ricordano l'adrenalina di pezzi come Narcosynthesis in una versione più sincopata mentre il ritornello concede molte più aperture melodiche. Ma ecco che subentra uno dei pezzi migliori dell'album, l'ottima And the Maiden Spoke: introduzione esotica ed allucinogena, svolgimento velocissimo e ferocissimo, distensione lisergica ma comunque orecchiabile nel ritornello, assolo da brividi. Questa sequenza di canzoni, se si eccettuano alcuni momenti troppo somiglianti ad altri di DHIADW e TGE (soprattutto in Moonrise) che quindi danno l'idea di canzoni ancora un po' inconcludenti, conferma l'idea che i Nevermore sono comunque dotati di grandi capacità e potenzialità e che pur nei momenti di bassa ispirazione riescono a trovare spunti vincenti.
Nei prossimi pezzi però l'idea che si sia cercato di ripescare soluzioni dai dischi precedenti tanto per scrivere qualcosa prevale ugualmente. La parentesi di Emptiness Unobstructed è davvero controversa, suona come una The Heart Collector trasfigurata in una versione sbiaditamente imitante certi gruppi goth melodici, piattissima per struttura, riff e arrangiamento; per contro è melodicamente accattivante sia nel chorus antemico che nelle aperture acustiche. Sarebbe stata per questo motivo una variazione interessante, il problema è che non c'è quasi traccia di originalità o personalità.
Altra parentesi è The Blue Marble and the New Soul, che inizia come una ballad cupa e malinconica, dalle atmosfere pregevoli anche se un po' trita ad un certo punto e davvero monotona nella coda distorta. Nulla di sensazionale o inaudito ma può essere godibile da ascoltare.
Without Morals ha un buon ritornello e una sezione solistica incisiva, ma ricorda troppo una via di mezzo fra un riciclo del disco del 2000 e i Meshuggah nei riff e gli Iron Maiden nel pur piacevole assolo, per convincere appieno. Così si ribadisce l'idea di un pezzo composto a metà che necessitava quindi di maggiore cura e lavoro in fase di stesura.
The Day You Built the Wall ha un refrain oscuro e avvolgente, con i chords distorti abbinati alla chitarra acustica e alle tastiere che ricreano un'aura di desolazione quasi post-apocalittica, accentuata ancora di più nell'assolo, ma per il resto si svela troppo monotona e dispersiva.
Ancora una ballata acustica, She Come's in Color è divisa fra una prima parte dolce e nostalgica ed una seconda parte granitica e bruciante, prese singolarmente entrambe sono ben fatte ma messe assieme non convincono del tutto e stonano un po' fra di loro.
Infine abbiamo la titletrack, veloce e massiccia, sarebbe fra le migliori se non fosse che a volte sembra riciclare già Your Poison Throne, rianimando la sensazione di incompiutezza degli altri brani.

Sullo stato di salute dei Nevermore è arduo pronunciarsi. Ci troviamo senza ombra di dubbio di fronte all'episodio più debole della loro carriera e quel che è peggio è che fra dischi solisti e l'annunciata reunion dei Sanctuary (i Nevermore sono nati dalle loro ceneri) probabilmente l'anima stessa del gruppo è in una fase di stanca che durerà a lungo, gli stessi membri ne sono consapevoli e per questo cercano altri sbocchi sui quali concentrarsi.
Rimane in ogni caso un disco che presenta momenti apprezzabili e piccoli bagliori che andavano approfonditi un po' di più, ma certo da cinque anni di attesa ci aspettavamo di più e con esso i Nevermore suscitano lo stesso effetto che fa un primo della classe che prende solo una sufficienza al compito in classe dopo averci abituati bene.
Certamente, pur finendo per cercare di imitare il passato e sfruttare soluzioni già usate (e con meno inventiva e variazioni), The Obsidian Conspiracy mantiene una classe di gran lunga superiore a quella di tanti dischi di gruppi l'uno la fotocopia dell'altro che puntualmente sbucano nel settore estremo - e lo consigliamo ugualmente ai fan del gruppo che sicuramente apprezzeranno abbastanza la pietanza.
Speriamo che gli statunitensi partino da queste basi per il prossimo full-lenght e che lo facciano in maniera più ragionata e ispirata.

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