Voto: 
7.5 / 10
Autore: 
Paolo Bellipanni
Genere: 
Etichetta: 
4AD
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Matt Berninger - voce
- Bryce Dessner - chitarra, tastiere
- Aaron Dessner - chitarra, pianoforte
- Bryan Devendorf - batteria
- Scott Devendorf - basso

Tracklist: 

1. Terrible Love
2. Sorrow
3. Anyone’s Ghost
4. Little Faith
5. Afraid of Everyone
6. Bloodbuzz Ohio
7. Lemonworld
8. Runaway
9. Conversation 16
10. England
11. Vanderlyle Crybaby Geeks

National, The

High Violet

La splendida e costante crescita del progetto Clogs sembrava aver messo piuttosto in ombra i National, a maggior ragione dopo la pubblicazione dell'ultimo gioiello The Creatures in the Garden of Lady Walton. Ma Bryce Dessner - una delle anime dei National e assiduo collaboratore di Padma Newsome sotto il monicker Clogs - il suo mondo originario non l'ha dimenticato, anzi, l'ha modificato e ricostruito con la pazienza dei saggi e la maestria dei grandi artisti. Assieme a lui, il fratello Aaron (chitarra, basso, piano), il cantante Matt Berninger (ormai divenuto uno dei singer più apprezzati del panorama indie) e l'altra accoppiata fraterna Devendorf (il geniale Bryan alla batteria e Scott al basso). Insomma, i National sono tornati. Come al solito in forma, come al solito mutati, come al solito pronti a stupire e commuovere.
L'ultima volta li avevamo visti (e più che mai apprezzati) nel 2007, anno di pubblicazione di un capolavoro - Boxer - destinato a rimanere nella top 5 della musica indipendente degli ultimi dieci - forse anche quindici o venti - anni.
Prima di quel gioiello, un'altra sfilza di splendidi dischi che col tempo hanno fatto lievitare il monicker The National e ne hanno consolidato il comando in ambito indie. A livello qualitativo e di maturità pochi, pochissimi sono riusciti a stargli dietro (probabilmente solo gli Arcade Fire sono stati al passo e i Coldplay li superano solo per il maggior appeal commerciale): capirne il motivo è, ovviamente, più che scontato.

Una carriera all'insegna di un'evoluzione costante, che ha portato la band dei fratelli Dessner a mutare pelle e idee ad ogni pubblicazione, lasciando però intatto il proprio fascino originario: osservare l'ancora rozzo e un pò grossolano indie rock dell'omonimo esordio (2001) evolversi e trasformarsi col tempo è stata - questo è poco ma sicuro - una delle esperienze più elettrizzanti per qualsiasi ascoltatore indie, diciamo così, "colto". Vere e proprie perle come Sad Songs for Dirty Lovers (2003), Alligator (2005) e Boxer sono i dischi che qualsiasi compositore 'indipendente' vorrebbe aver composto per testimoniare la propria crescita.

I National lo sanno e - nel loro intellettualismo crepuscolare ad alta componente autoironica - fanno al contempo finta di non sapere di essere i migliori. High Violet è qui a testimoniarlo e a confermare il fatto che mentre il 90% dei gruppi rock odierni (indie e non) subisce cali continui e si disperde, i National sono ancora nel loro mondo sotto il tramonto a comporre, disegnare e colorare la solita carovana di emozioni e pensieri fluttuanti.
High Violet - vale la pena dirlo da subito - è un disco diverso da tutti i precedenti firmati The National: con fare grazioso ed elegante si allontana progressivamente dalla compattezza post-punk, disperde la più corposa vena indie/alt-rock con un paio di tocchi magici e si abbandona ad un linguaggio pop che più toccante e d'autore non si può. High Violet è il nuovo paradigma pop tramite cui i National hanno deciso di tradurre la musica moderna; non c'è più l'irrequietezza ritmica di Boxer, le influenze wave sono sempre più smussate e quasi impossibili da identificare, i fraseggi chitarristici sembrano morbidi ornamenti di flauti, le tessiture sintetiche appaiono con incredibile delicatezza, il tutto diviene improvvisamente più pacato e armonico.

High Violet è una passeggiata silenziosa in cui si vaga col cuore in mano tra soavi masse sintetiche, mood malinconici, leggeri fraseggi indie e atmosfere quasi cantautorali. Pur risultando meno elettrico, febbrile e vivace di un Boxer o di un Alligator, l'ultimo disco degli statunitensi rimane alla stessa maniera estremamente vibrante e intenso, oltre che interiormente ed esteticamente impeccabile. A pagare pegno per questa graduale virata stilistica è però il drumming instabile e ricercato di Devendorf, marchio di fabbrica dei National e vero e proprio elemento catalizzatore del linguaggio espressivo della band newyorkese; ma, nonostante il singolare cambiamento, High Violet riesce a sopperire a tale mancanza, evolvendosi continuamente in un'atmosfera ben più elegante e curata (seppur meno impetuosa) di quella dei precedenti lavori.
Il primo singolo estratto, Bloodbuzz Ohio, lo mette in chiaro con una semplicità disarmante, soprattutto se si pensa che quella che può sembrare null'altro che una buona canzone pop, al suo interno nasconde una raffinatezza esecutiva, una precisione negli arrangiamenti e un equilibrio melodico di inequivocabile spessore. E se è vero che anche gli altri brani di High Violet in apparenza richiamano questo stato di cose, al di sotto della loro semplice ed elegante veste covano una profondità espressiva unica, capace di elevare splendidamente una melodia o un riff che in mano a qualunque altro artista non avrebbe mai posseduto la stessa peculiare bellezza.
Per il resto, di nuovo i National non presentano nulla di sorprendente, per il semplice fatto che, ormai, sorprendersi delle loro qualità è divenuto impossibile: ritornano sulle scene con un disco nuovo e diverso, cambiano abbigliamento e modo di suonare, raffinano, evolvono, costruiscono e distruggono eppure, alla fine di ogni brano, si ha l'ovvia sensazione che non potevano essere altri che loro. Sempre così nuovi e mutanti, sempre così fottutamente riconoscibili.
I brani, inutile dirlo, si distinguono per una vena melodica e una raffinatezza espressiva come al solito accecante e, dal loro continuum di mood e atmosfere, il disco trae una forza emotiva tut'altro che banale, nonostante l'abbigliamento indossato sia sempre più pop e meno alt-rock: tolte le sole England, Little Faith  e Lemonworld, High Violet non perde un colpo e non sbaglia neanche nei momenti in cui manierismo e ripetitività sono dietro l'angolo. Canzoni come Runaway (estremamente toccante nel soave giro melodico e nei sinuosi arrangiamenti sottostanti), Afraid of Everyone (vetta dell'album nel suo connubio di ritmi pulsanti e toni crepuscolari) e Conversation 16 sarebbero pezzi pregiatissimi per qualunque almanacco pop d'autore post-duemila; e se poi altri episodi come Sorrow e England si fanno apprezzare pur senza lasciare veramente il segno, ecco che - con la consueta grazia e la solita, intoccabile silhouette - si sgomitolano lentamente Terrible Love (unica canzone in cui, a tratti, Devendorf riesuma le sue fascinose bizzarrie ritmiche), la splendida Anyone's Ghost e l'altrettanto toccante Vanderlyle Crybaby Geeks, episodio conclusivo in cui l'arte pop dei National si concentra nella sua forma più ariosa, autorale e colta, chiudendo il disco in maniera egregia.

Ancora una volta mutati e sempre più consci della propria - unica e invidiabile - padronanza del linguaggio pop-rock moderno, i National hanno dato alle stampe un album emozionante e che, pur nel suo lieve distacco stilistico, si pone precisamente in simmetria col loro perfetto rettilineo evolutivo. Insomma, sono stati impeccabili fino a Boxer e continuano ora ad esserlo con High Violet; d'altronde, con una voce come quella di Matt Berninger e una saggezza compositiva come quella dei fratelli Dessner, alternative non potevano esserci e non è un caso se - ancora una volta - i cinque poeti made in Brooklyn hanno fatto centro. Immancabili.

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