Voto: 
6.5 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Virgin
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Robert Del Naja - vocals, keyboards, programming, songwriting
- Grant Marshall - vocals, keyboards programming, songwriting

Guests:
- Horace Andy - vocals
- Martina Topley-Bird - vocals
- Guy Garvey - vocals
- Hope Sandoval - vocals
- Tunde Adebimpe - vocals
- Adrian Utley - guitars
- John Baggott - keyboards
- Damon Albarn - keyboards, synths, vocals
- Neil Davidge - bass, programming
- Billy Fuller - bass
- Jerry Fuchs - drums
- Damon Reece - drums
- Angelo Bruschini - guitars
- Tim Goldsworthy - programming

Not credited guests:
- Jhelisa Stephanie Dosen
- Yolanda
- Aku
- Akwetey Orraca Tetteh
- Elizabeth Fraser
- Dot Allison
- Debbie Clare
- Mike Patton
- Fredo Viola
- Beth Orton
- Terry Callier.

Tracklist: 


1. Pray for Rain
2. Babel
3. Splitting the Atom
4. Girl I Love You
5. Psyche
6. Flat of the Blade
7. Paradise Circus
8. Rush Minute
9. Saturday Comes Slow
10. Atlas Air

Massive Attack

Heligoland

Il quinto album studio dei Massive Attack (quarto, se si considera 100th Window come un album solista di Robert Del Naja) viene alla luce dopo un periodo di gestazione immensamente lungo e travagliato. Problemi nella stabilità della formazione, un lavoro di produzione tribolato, il titolo che ha subito diverse modifiche prima di giungere a quello definitivo e gli innumerevoli rinvii hanno fatto di Heligoland uno dei dischi più attesi degli ultimi anni.
Il parallelo è con Third dei concittadini Portishead, anch'essi fra i pionieri del trip hop e che hanno rilasciato un nuovo album dopo molti anni dall'ultimo. Ma se Third risultava inaspettatamente inedito e con uno stile completamente trasfigurato rispetto a quello dell'epoca d'oro del Bristol sound, Heligoland cerca di mediare maggiormente fra alcune delle tendenze esplorate dai Massive Attack nel corso della loro discografia e assemblarle in qualcosa di familiare e ugualmente oscuro, introverso e alienato - anche se molto più soffuso e meno angosciato nei toni, decisamente meno spiazzante nella novità.
Un'altra differenza è nel songwriting ben più elettronico, nonostante pure gli strumenti acustici qui abbiano un ruolo attivo in fase di composizione e il disco rimanga in larga parte "suonato"; ma principalmente la tendenza del disco e di rimescolare basi elettroniche e riempimenti ambientali sia come fondamenta su cui appoggiare l'edificazione del brano, sia come accompagnamento espanso, con percussioni mai invasive anche quando più frenetiche, sintetizzatori dosati e introversi, tastiere minimali. Un risultato che è frutto della produzione certosina effettuata da Del Naja & soci e che deriva da quanto già fatto in 100th Window (spogliato però di buona parte dei suoi spunti gotici e psichedelici, nonché di molte soluzioni sonore esotiche).
Una similitudine è invece negli arrangiamenti più scarnificati, soluzione atta a rendere i pezzi più essenziali, diretti e inquietanti, come a rappresentare una società spogliata della sua umanità oramai che il nuovo secolo si è inoltrato, ma che nel finale tendono a risultare purtroppo un po' piatti a dispetto di un buon inizio.
Apparentemente meno profondo, Heligoland è invece calmo, ponderato, con un'attitudine più riflessiva e intimista, necessitante di una dosata messa a fuoco per svelare i vari volti psicologici nascosti nei pezzi.

Si comincia dunque con l'intrigante Pray for Rain, tetra e paludosa traccia a tinte noir, con la voce distaccata di Tunde Adebimpe dei TV on the Radio a squarciare la notte scandita dalle percussioni glaciali e scarnificate. Fra le note si insinuano velati spruzzi jazzy, infiltrazioni lontanamente soul ed un minimalismo più accentuato del solito, mentre l'intermezzo è un crescendo mesmerizzante che sfocia poi in una breve parentesi più dolce e lounge. Si tratta di uno dei pezzi meglio riusciti di tutto il disco, dal notevole spessore malinconico e con arrangiamenti ben delineati e rinfrescati nello stile.
Babel è mandata avanti da beats elettronici e bassi secchi che rievocano le atmosfere del precedente disco firmato Massive Attack ed alla lontana anche il mood di Hail to the Thief dei Radiohead e dei 13 & God; la voce distaccata ma anche sensuale di Martina Topley-Bird si inserisce fra le influenze dubstep e i synth cupi, quasi ululanti, come se emergesse una figura candida e delicata da un immaginario claustrofobico pronto ad inghiottirla in qualsiasi momento, tale è l'inquietudine generata dalle atmosfere di sfondo - ma è un'inquietudine totalmente modellata nell'era digitale attuale. Sono comunque le ritmiche upbeat incalzanti e le distorsioni di chitarra riverberate in lontananza ad accentuare l'angoscia umana in contrasto con la fredda elettronica in primo piano.
Viene ora Splitting the Atom, che figura alla voce l'onnipresente amico Horace Andy ed il redivivo Grant Marshall, tornato nel gruppo dopo averlo temporaneamente lasciato una decina di anni fa circa per stare con la famiglia.
Il ritmo suadente, i sintetizzatori caldi, il piglio ragga, le atmosfere fumose con tonalità quasi soul e le linee vocali distaccate sembrano riportare alla mente Protection: ma gli arrangiamenti più graffianti ed ipnotici, le stratificazioni avvolgenti e la generale cupezza di sfondo rievocano invece certi aspetti di 100th Window. La canzone però non sembra nè un estratto dal primo nè uno estratto dal secondo, ma qualcosa di nuovo e particolare. Peccato che alla lunga suoni un po' ripetitiva, il che limita il risultato finale; ma complessivamente è un buon pezzo.
La successiva Girl I Love You inizia con una combo di bassi intermittenti, batteria ossessiva e tastiere raggelanti che costruisce un'atmosfera epica e terrificante al tempo stesso, forse squarciata solo dalla voce delicata di Andy che però a tratti assume quasi lo stesso ruolo della Topley-Bird in Babel, soprattutto nel chorus allucinogeno e macchiato di suoni orientaleggianti. Si tratta di una rivisitazione di un suo vecchio brano del 1974, in maniera analoga alla storica hit Angel.
Fino a questo momento il livello generale delle canzoni mostra una certa bontà (anche se non ci sono delle perle che svettino in particolar modo nella discografia, tranne forse Pray for Rain) che permane anche con la prossima canzone: Psyche è lenta, fangosa, spettrale, il battito cadenzato e sintetico enfatizza l'oscurità generata dai sintetizzatori, che sembrano dipingere lo scenario di una metropoli catatonica e asfissiata dalle angoscie esistenziali dei suoi abitanti. Solo la voce tenue della Topley-Bird lascia filtrare un bagliore di luce in queste strade offuscate.
Invece in Flat of the Blade le linee vocali di Guy Garvey (Elbow, I Am Kloot) sono più desolate e melanconiche. Il sottostrato elettronico è però a volte troppo monotono e piatto, finendo per spegnere le atmosfere macabre e post-industriali del pezzo che vengono risollevate solo da alcuni tappeti di strings che subentrano ad un certo punto (tuttavia in sè banali e che non impediscono alla canzone di risultare alla lunga ripetitiva).
Il risultato è migliore nella tenue Paradise Circus, che recupera certi spunti melodici di Mezzanine (assieme ad alcuni singulti emotivi dalla OST di Danny the Dog) convertendoli nel formato dolente di Heligoland, raggiungendo alcuni dei picchi dolci e malinconici del disco. Il pianoforte minimale si sposa alla perfezione con le percussioni leggere e le linee di basso orecchiabile, mentre in lontananza ad un certo punto fanno capolino le solite strings ad accompagnare le linee vocali meste di Hope Sandoval dei Mazzy Star.
Rush Minute è tenue e soffusa, la voce dolente di Del Naja è quasi sussurrata mentre le chitarre ovattate costruiscono degli arrangiamenti a ripetersi. Nel complesso il pezzo segue un velato crescendo emotivo, tuttavia troppo labile per incidere realmente, mentre il mood malinconico risulta annacquato dalla monotonia.
Viene ora Saturday Come Slow, in cui si percepisce l'influenza dei progetti di Damon Albarn (che difatti è alla voce). La batteria leggera ma continua funge da pavimento per il resto della strumentazione, che si risolve in arpeggi di chitarra acustica (che sono invece di Adrian Utley) sullo sfondo e riempimenti tastieristici appena accennati. Ancora una volta la canzone risulta un po' monotona, ma gli spunti melodici nel ritornello sono comunque godibili e complesssivamente c'è più ispirazione, facendo risultare la canzone più coinvolgente della precedente. La prestazione vocale di Albarn è invece altalenante, ora particolarmente espressiva e ora che sembra mal adattarsi alle atmosfere.
Due pezzi con buoni spunti ma non riusciti del tutto, in questo caso è difficile vedere il bicchiere mezzo pieno quando si ha a che fare con dei primi della classe durante qualche episodio un po' sottotono.
Fortunatamente la sorte del disco viene (per la seconda volta di fila nella discografia degli inglesi) risollevata in extremis con Atlais Air, condotta da synth e batteria ottantiani, bassi dub incisivi e vocals accattivanti, il tutto impreziosito da contrappunti sonori elettronici melodici, percussioni esotiche e hammond retrò che rende ancora più nostalgico l'umore della canzone. Il suo punto debole potrebbe risultare l'eccessivo prolungamento del tutto, ma il climax della parte finale riamalgama gli elementi in gioco attenuando ciò.

La sensazione è che i Massive Attack si siano "reinventati" prendendo alcuni elementi del loro passato, in particolare gli arrangiamenti più elettronici di 100th Window (di cui comunque il disco non è l'erede diretto, anche se il paragone non è tanto erroneo) e alcune soluzioni che caratterizzavano i primi dischi, però più che altro per non ripetere la stessa solfa con qualcosa di identico piuttosto che per rivoluzionare o sperimentare nuove soluzioni, ma comunque cercando di esprimere appieno gli umori e le angoscie più radicati nelle storie raccontate da ciascuna traccia.
Il songwriting in certi momenti è più prevedibile del solito come evidenziato nel trackbytrack, ma permangono apici interessanti e guizzi melodi con cui si ottengono diversi brani piacevoli, immersi come sono in atmosfere cupamente elettroniche dal retrogusto decadente o intrise da arrangiamenti acustici minimali. Inoltre, le numerose guest faticano ad inserirsi con omogeneità negli schemi del gruppo, sembrando come se stessero timbrando il cartellino sconnessi fra loro piuttosto che integrandosi con il nucleo della formazione come accadeva in passato (persino Horace Andy, che è praticamente un membro del gruppo, lascia questa sensazione in alcuni momenti).

Può darsi che Heligoland si riveli in ogni caso il disco più debole e meno creativo dei Massive Attack, ma l'album cresce con gli ascolti e rivela ogni volta nuove sfaccettature della sua personalità complessa e introversa.
Se dopo sette anni di attesa e innumerevoli rinvii ci si aspettava molto di più dalla formazione britannica, il disco può rivelarsi a conti fatti un po' deludente, ma dandogli tempo di crescere ed evitando confronti con i capolavori del passato (che sminuirebbero gli intenti e gli obiettivi di Del Naja e Marshall) si scoprono sempre più sfumature che lo compongono.

Dovrebbe essere inoltre in arrivo un album di remix targato Burial, analogo a quello che Mad Professor fece per Protection.

NUOVE USCITE
Filastine & Nova
Post World Industries
Montauk
Labellascheggia
Paolo Spaccamonti & Ramon Moro
Dunque - Superbudda
Brucianuvole
Autoprod.
Crampo Eighteen
Autoprod..
BeWider
Autoprod..
Disemballerina
Minotauro
Accesso utente