Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Paolo Bellipanni
Genere: 
Etichetta: 
Nonesuch
Anno: 
2008
Line-Up: 

- Stephin Merritt - Voce, Chitarra
- Claudia Gonson - Voce, Percussioni, Piano
- Sam Davol - Cello
- John Woo - Banjo, Chitarra

Tracklist: 

1. Three-Way
2. California Girls
3. Old Fools
4. Xavier Says
5. Mr. Mistletoe
6. Please Stop Dancing
7. Drive On, Driver
8. Too Drunk To Dream
9. Till The Bitter End
10. I'll Dream Alone
11. The Nun's Litany
12. Zombie Boy
13. Courtesans

Magnetic Fields, The

Distortion

The Magnetic Fields, ovvero lo Stephin Merritt che da ormai quasi vent'anni si erge dietro questo progetto fascinoso e, per certi versi, sottovalutato; perchè Merritt, nonostante non si meriti l'appellativo di "genio" nè tantomeno di "grande compositore", rimane in ogni caso una personalità particolare, di quelle che se ne trovano poche in giro, ma davvero poche. La sua musica non è nulla di avanguardista, non ha niente a che fare con sperimentazioni di rottura o robe simili eppure, in questo periodo in cui gli artisti si raggomitolano e si smarriscono alla disperata ricerca di trovate fintamente originali, non abbiamo avuto modo di avere a che fare con figure così peculiari e interessanti come quella di Merritt, giornalista e scrittore oltre che musicista e abile polistrumentista.

Ultimo tassello della discografia dei Magnetic Fields, Distortion conferma e sottolinea le doti compositive di Merritt, questa volta cimentato in un pop rock che, come giustamente suggerisce il titolo del disco, si basa su un sound ricco di distorsioni e di ruvide atmosfere oniriche: Distortion è un lavoro per certi versi indefinibile, non tanto per il genere in cui va a inquadrarsi (si tratta sempre e comunque di pop, ora più noise ora più dream), ma per la dimensione sonora in cui è immerso, in quanto a fatica si può capire se il disco sia direttamente uscito da rovinati cantieri new wave di fine '80 o dalle noise-school post duemila.
Sembra quasi di ritrovare nella stessa musica i Depeche Mode, i Jesus And Mary Chain e un pizzico di Velvet Underground (sentire Zombie Boy e Drive On, Driver per credere), la brillantezza del synth pop e la tremante atmosfera dello shoegaze (Courtesans), il pop più orecchiabile (California Girls, The Nun's Litany) e allo stesso tempo le cornici rock più contorte e ricercate (Too Drunk To Dream, I'll Dream Alone) .
E non è nemmeno un caso che Distortion sembri così vario e contemporaneamente sempre uguale, senza un cambiamento o una sfumatura in più tra una canzone e l'altra: voci e cantilene, ritmi lenti e regolari, chitarre metalliche e atmosfere che passano in un batter di ciglia dallo psichedelico al rumoristico, conservando sempre la loro essenza più orecchiabile e lineare.

Quasi non si capisce quale sia stato l'intento che ha spinto Merritt a comporre un disco del genere: il bisogno di rendere complicata una musica di consumo di per sè diretta e scorrevole o il suo perfetto contrario, ovvero la voglia di semplificare attraverso le forme pop un sound complesso e distorto? Entrambe, o forse nessuna delle due, e non è nemmeno troppo importante conoscere una verità di cui magari nemmeno Merritt è a conoscenza.
Distortion è un album evocativo che, anche attraverso una sola nota di synth, è capace di riesumare atmosfere e periodi musicali più o meno dimenticati in un modo che in superficie sembrerebbe trito e ritrito e che invece riesce ad essere quasi sempre originale e magnetico: l'arte della distorsione applicata alla musica di consumo. Una più elevata attenzione alla sfera emotivo-melodica avrebbe forse garantito maggiore spessore artistico ad un disco che, in ogni caso, conferma Merritt come un autore preciso e sapiente, senza nessun atteggiamento pseudo-intellettuale, ma soprattutto sicuro e, in qualche modo, fiero dell'enormità dei suoi mezzi espressivi. D'altronde, ad averne in così grande quantità ci sarebbe solo da vantarsene.

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