Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
A. Giulio Magliulo
Genere: 
Etichetta: 
Sub Pop
Anno: 
2013
Line-Up: 

Alan Sparhawk - voce, chitarre

Mimi Parker - voce, batteria

Steve Garrington - basso, tastiere

 

prodotto da Jeff Tweedy

 

Tracklist: 
  1. Plastic Cup
  2. Amethyst
  3. So Blue
  4. Holy Ghost
  5. Waiting
  6. Clarence White
  7. Four Score
  8. Just Make It Stop
  9. Mother
  10. On My Own
  11. To Our Knees
Low

The Invisible Way

Se qualcuno mi chiedesse di citare un disco che all’oggi rappresenti la tradizione musicale americana nel contemporaneo, probabilmente direi che per essa ci sono troppe declinazioni per condensarle in un unico titolo. Ma se così per gioco il mio interlocutore immaginario dovesse insistere allo scopo di ottenere questo titolo, allora io gli direi The Invisible Way, l’ultimo album dei Low.

Nei primi venti secondi di Plastic Cup, traccia che inaugura il disco, c’è già tutto: un accordo di chitarra acustica in maggiore, una batteria tenue ma decisa nella sua scansione metronomica e la voce chiara e forte di Alan Sparhawk. Alla fine di questa prima ‘frase’, subito quindi,  già un accordo in minore, già l’abbandono, annullato però dal controcanto di Mimi Parker che doppiando la voce del marito fin dall’inizio si eleva angelica e dona un senso altro alla scarnezza, alla crudezza del testo, degna di un grande romanziere del sud (la tazza di plastica nella quale ci faranno pisciare non è foriera di nessun futuro roseo, ciò nonostante non possiamo esimerci dal muoverci dal nostro torpore e scrivere la nostra fottuta canzone).  

Giunti al decimo episodio della loro storia, i Low sembrano ormai irraggiungibili eppure c’è chi ha detto ‘ecco il solito disco dei Low’. Certo, il senso di un album del genere non può essere affidato alla memoria di chi non ricorda che formazioni come i Low (e come i Codeine e come i Karate e come gli Spain e come gli American Music Club e mi fermo qui perché potremmo continuare all’infinito …) in quegli anni ’90 lì hanno scosso  il rock indipendente dalla piega machista e tossica in cui si andava incuneando per  riportarci alle emozioni ed ai sentimenti, anche quelli più scabrosi magari, ma decisamente più veri di tante proposte del tempo.

Autocelebrazione? Assolutamente no! I Low, non si autocelebrano affatto, semplicemente sono diventati dei classici, dei grandi classici, di quelli immensi e senza tempo, di quelli che essi stessi avranno ascoltato mille e mille volte, senza nessuna pretesa e velleità, con un ‘low’ profile degno del loro monicker.

E questo status i Low se lo son meritati; ammirati persino da grandi artisti che giocano su terreni distanti (leggesi Robert Plant che li coverizza), non sono mai stati un gruppo facile. I Low hanno avuto il coraggio di tirare il freno quando tutti volevano correre e di sparigliare le carte sulla tavola formalmente apparecchiata di un movimento acustico che si andava accomodando, disturbando con le loro malinconiche ombre la quiete conservatrice di tanti ‘new rurals’.

Partendo quindi da quell’assunto slow core visto allora come rivoluzionario, possiamo affermare che i Low hanno fatto un giro largo, un percorso obliquo per ritrovarsi poi dritti in braccio alla ‘storia’. Può sembrare quindi un paradosso questa posizione oggi poco alternativa, ma se si guarda a questa ‘storia’ che è il rock americano, non notiamo forse che le sue pagine migliori son state tutte scritte da artisti off?

Mi piacerebbe quindi pensare ai Low come ai portatori di una nuova forma di Americana, di un’alternativa ad essa e a ciò che rappresenta nel sentimento nazional-popolare di quel paese, ma che a ben ascoltare The Invisible way, troppo alternativa neanche è.

Ed è proprio con quel sentimento che sfilano le grandi canzoni di The Invisible Way come i grani di un rosario recitato nella penombra di una stanza, una dopo l’altra: So Blue, col suo afflato speranzoso, Amethyst, caratteristica della cifra stilistica dei Low, del loro essere magnetici anche quando il contesto è tutto acustico, Holy Ghost che apre scenari soul laddove non lo si credeva possibile, Clarence White ovvero  l’inquietudine Low che tutti vogliamo da un loro disco e quindi ponte con i loro più amati trascorsi, Just Make It Stop, nuova e  rinnovata e matura coralità, On My Own, decimo brano in un disco di undici ma primo in cui si sente una chitarra elettrica, satura e distorta.

Dal Loft, lo studio dei Wilco, il possibile disco dell’anno.

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