Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Filippo Morini
Etichetta: 
Atlantic
Anno: 
1992
Line-Up: 

- Evan Dando - voce, chitarra
- Juliana Hatfield - basso, voce
- Dave Ryan - batteria
- Skunk Baxter - chitarra
- Barry Goldberg - organo

Tracklist: 

1. Rockin' Stroll
2. Confetti
3. It's a Shame About Ray
4. Rudderless
5. My Drug Buddy
6. The Turnpike Down
7. Bit Part
8. Alison’s Starting to Happen
9. Hannah & Gabi
10. Kitchen
11. Ceiling Fan in My Spoon
12. Frank Mills
13. Mrs. Robinson

Lemonheads, The

It's a Shame About Ray

Che la prima metà degli anni ’90 sia stata una sorta di lungo “quarto d’ora di gloria” per il loser americano medio è ormai storia vecchia e risaputa, ma all’ombra dei grandi nomi e delle grandi band torturate fino alla nausea dai più tristi episodi di marketing, si muovevano personaggi forse meno interessanti per il grande pubblico ma altrettanto importanti per avere un quadro completo di ciò che si respirava per le strade e per i locali durante la passata decade.
I Lemonheads, ed in particolar modo il loro leader Evan Dando, rappresentano perfettamente l’intero sub-strato musicale che brulicava nervoso giusto un gradino sotto allo star system televisivo, ritagliandosi una buona fetta di fans, una modesta parte di mercato e, oggi, manciate di schegge di cuori nostalgici, senza aver mai effettivamente “sfondato”.

Formatisi nel 1986 tra i banchi del liceo, si dedicarono inizialmente e con scarso successo ad un punk hardcore blando e marcio facendosi chiamare The Whelps, e solo successivamente, rubato il nome che li accompagnò alla fama ad un dolce “aspro all’esterno ma dolce all’interno” (così Evan Dando descriveva la propria musica) decisero in una brusca ma acuta sterzata verso i lidi dell’alternative pop rock che proprio in quegli anni dominava le classifiche e le copertine delle riviste, attirando su di esso l’attenzione morbosa di pubblico e critica. Mai scelta fu più azzeccata.
Abbandonato anche il look punk in favore di capelli lunghi e camicie a quadri, il gruppo fu pronto per essere dato in pasto alla folla, attraverso un cambiamento così rapido e radicale da puzzare quasi di operazione commerciale, pubblicando in perfetto tempismo It’s a Shame about Ray e arrivando in men che non si dica a tappezzare le camere delle ragazze “siamo alternative ma non troppo”.
Il loro pop rock agrodolce e venato di malinconia li aiutava a distinguersi dalla massa grunge senza tuttavia allontanarsi troppo, riuscendo a risultare simpatici un po’ a tutti ma veramente importanti per pochi.

Rockin Stroll, traccia d’apertura del disco, si riserva infatti poche battute per mostrarsi innocua ma adeguatamente accattivante alle orecchie dell’ascoltatore, una chitarra sporca ma non troppo segue la voce del leader senza risultare mai invadente, mentre i restanti strumenti si adeguano placidamente al pop brillante ma naturale che caratterizzerà l’intero lavoro. Confetti e la successiva title-track riescono a coinvolgere maggiormente grazie ad un impronta leggermente più melodica che fece loro meritare i titoli di singoli atti a trainare l’album. Le sonorità in ogni caso non si discostano assolutamente dal classico pop underground statunitense, rendendo talvolta difficile distinguere le tracce ad un primo, distratto ascolto.
La voce giovane e riconoscibile del leader si adatta bene al non-genere ricercato dalla band, essendo anch’essa non troppo roca e grintosa ma nemmeno troppo morbida e trascinata, esattamente in linea con l’accompagnamento strumentale dei compagni. Rudderless vanta qualche cambio melodico più originale ed una linea generalmente più cantabile, grazie anche ad atmosfere più consistenti e meno superficiali che coinvolgono maggiormente l’ascoltatore. Cambia rapidamente nel finale per concedersi un timido climax musicale/vocale e passare il testimone alla più riflessiva e lenta My Drug Buddy (titolo poi censurato nelle ristampe del disco e ridotto al solo Buddy).
Qui la situazione tende a suoni dolci e rilassati, rendendo questa canzone “il lento” del disco, incorniciata da minuscoli organetti reggae e cori femminili. Le tonalità autunnali che colorano la composizione senza tuttavia togliere la leggerezza gioiosa che si nasconde in ogni traccia aiutano a non allontanarsi eccessivamente dal percorso scelto, mascherando questo episodio da buon diversivo, fresco e piacevole.
The Turnpike Down ricalca le trame disegnate dai primi tre pezzi della tracklist, senza riuscire a sfuggire dall’ombra di anonimia che la perseguita inesorabilmente. Fortunatamente Bit Part riesce a scuotere un po’ le cose grazie alla sua andatura movimentata e quasi ballabile, seguita a ruota da Allison's Starting to Happen, che senza dire nulla di nuovo si rende semplicemente carina ed ascoltabile.
Tutti i successivi brani non azzardano assolutamente nulla di particolarmente innovativo, e anche se compare qualche inedita chitarra slide in Hannah & Gabi, o qualche esotica rullata di bongo e clap hands tra le schitarrate mansuete di Kitchen, il lavoro si consuma tranquillo fino all’ultimo traccia, unica vera hit e successo televisivo dei Lemonheads, la cover di Mrs. Robinson di Simon e Garfunkel.
Questo pezzo fu registrato successivamente all’uscita del disco e inclusa in fondo alla tracklist solo alla prima ristampa di It’ A Shame About Ray, così da assicurasi un successo insipido ma sicuro, con la pubblicazione di una canzone già famosa e conosciuta dal grande pubblico, rivista in chiave pop/rock easy listening  e proposta ovviamente come singolo.
Quest’ultima traccia è senza dubbio la migliore, ma il merito da attribuire a Evan Dando e compagni è chiaramente minimo essendo ridotto solo alla fresca interpretazione del brano, cosa che dona comunque nuova luce ad una canzone altrimenti fossilizzata nella sua forma originaria.

Non resta molto da dire a proposito di questo disco, l’entusiasmo che si può ricavare da un suo anche prolungato ascolto è veramente tiepido e minimo, non riuscendo ad entrare troppo nel cuore dell’ascoltatore. Effettivamente ogni canzone appare perfetta come sigla di qualche tipica serie televisiva americana, qualcosa da gettare agli adolescenti disillusi ed annoiati a metà pomeriggio, ma non per restare nei ricordi di qualcuno.
Le melodie sono generalmente buone anche se non troppo distinguibili l’una dall’altra e solo la voce del frontman attira l’attenzione su di un lavoro altrimenti mediocre, cosa della quale la band soffrì una volta scoperte le abitudini autodistruttive del cantante: come la maggior parte dei suoi coetanei musicisti del tempo, anche il Nostro si dava alla pazza gioia partecipando a festini e fumando crack senza ritegno, vizio che lo rendeva totalmente afono ed incapace anche di sostenere delle semplici interviste.
Considerato infine il fatto che la band non godeva di particolari doti compositive o artistiche, e che l’intera riserva di creatività risiedeva nella personalità debole e contorta di Evan Dando, rende possibile intuire come i Lemonheads furono il classico gruppo arrivato nel posto giusto al momento giusto, forti di un leader ingestibile ma carismatico sul quale si addossarono le responsabilità di tutto il gruppo.
I media fecero il resto, nominandolo nuova icona generazionale ed esponendolo in modo certamente eccessivo ed irresponsabile, le donne e le feste a base di polverine magiche gli diedero poi il colpo di grazia mettendolo fuori gioco per sempre, considerata la scarsa importanza dei dischi successivi a questo targati Lemonheads.
Ma gli anni ‘90 furono anche, o soprattutto, questo: un abbagliante e lungo sogno ad occhi aperti per molti adolescenti vogliosi di ribellione e riscatto, sogno che sfortunatamente bruciò e dimenticò molti di loro.

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