Voto: 
7.9 / 10
Autore: 
Gioele Nasi
Genere: 
Etichetta: 
Mute Records
Anno: 
2006
Line-Up: 

- Laibach – Voce e Musica, Liriche
- Silence (Primož Hladnik e Boris Benko) – Composizioni, Arrangiamenti, Partecipazioni come vocalist


Tracklist: 

1. Germania
2. America
3. Anglia
4. Rossiya
5. Francia
6. Italia
7. España
8. Yisra’el
9. Türkiye
10. Zhonghuá
11. Nippon
12. Slovania
13. Vaticanae
14. NSK

Laibach

Volk

Gente strana, i Laibach. Il collettivo artistico sloveno è in giro da oramai più di venticinque anni, eppure ha ancora voglia di stupire e provocare, sebbene nel 2006 lo faccia in misura minore rispetto ad inizio carriera. E’ l’ultima carta rimasta loro da giocare o hanno ancora qualcosa da dire in questo senso?

L’ultimo lavoro in studio del gruppo di Lubiana, risalente al 2003, era stato il mediocre “W.A.T.”, un disco oscuro che si muoveva su terreni elettro-industriali dai toni decisamente cupi, ma che spesso finiva per cedere a facili tentazioni ballabili vicine all’EBM (l’esempio più eclatante fu forse “Tanz Mit Laibach”, ma anche “Acthung” presentava diversi richiami a sonorità da dancefloor alternativo) – nella pratica, l’ennesima trasformazione dei Laibach non riuscì a convincere del tutto, e soprattutto non chiariva in quale direzione si stesse spingendo il progetto.

Ed eccoci dunque a questo 2006, a scoprire quali idee i più celebri rappresentanti della Neue Slowenische Kunst ci avrebbero presentato: e ammetto di essere rimasto sconcertato e sorpreso quando si è saputo che “Volk” avrebbe contenuto quattordici canzoni ispirate da altrettanti inni nazionali; certo, la passione dei Laibach per le cover è risaputa (alcuni dei loro maggiori successi lo sono, da “Opus Dei” in poi), ma che il punto di partenza per lo sviluppo di nuove canzoni fossero i ‘national anthems’ delle più importanti nazioni della Terra, beh, questo è stato un colpo di coda davvero interessante.

“Volk” è in realtà un disco dei Laibach solo in parte, visto che praticamente tutte le tracce contenute (ben tredici su quattordici) sono state arrangiate e composte da un altro, interessante, progetto di loro connazionali: sto parlando dei Silence, un duo attivo da circa una dozzina d’anni in campi quali l’Elettronica, l’Ambient e la musica per colonne sonore; il lavoro firmato da Boris Benko e Primož Hladnik è davvero eccellente, per gran parte dell’album la qualità delle composizioni si mantiene altissima, e nonostante alcuni cedimenti che andremo ad analizzare, non si può non complimentarsi con questa band, peraltro guidata alla perfezione dall’esperta supervisione dei Laibach.
Il disco è ricamato da un’elettronica non particolarmente distruttiva od ossessionante, dai toni raffinatamente oscuri ed atmosferici (ma abbordabili), capaci di colpire già ai primi ascolti; come già premesso, ogni canzone prende spunto nei temi sia musicali che lirici da un inno nazionale, ma le rivisitazioni sono ben inserite in armonie di stampo Elettro-Dark, e i momenti pacchiani, facilmente prevedibili in un disco di questo stampo, si riducono sensibilmente rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare.

Non pensate a qualcosa di pedante e a schemi fissi: pur prendendo una larga fetta d’ispirazione da ogni singolo inno, e nonostante il ricorso, talvolta, a pregiudizi sonori e immagini stereotipate, ogni brano sviluppa analisi relative a particolari momenti storici del paese in esame: nel caso di “Germania”, si tratta dell’eredità della nazione dopo il secondo conflitto mondiale: l’opener del disco è finissima musica Elettronica, con il coro di “Das Lied der Deutschen” a farsi strada con grande compostezza verso il finale della canzone, alternandosi alla profonda e carismatica voce solista di Milan Fras.
Il tono generale delle composizioni è abbastanza mellifluo (perlomeno a livello musicale) - non lasciatevi quindi ingannare dai poderosi synth rumoristi che aprono “America”: il brano gode di un refrain di dolcezza straniante, specialmente quando messo a confronto con le atmosfere tristemente critiche (“Land of the free – and home of the brave – are your stars still bright?”, ripresa poco entusiasta delle liriche di “The Star-Spangled Banner”) che riescono a trasparire tra un basso corposo, protagonista indiscusso, e il logorroico campionamento di una voce di un qualche predicatore.
“Anglia”, primo singolo estratto dall’album, è aperta dai suoni di un’orchestra di corte, e successivamente affonda tra i sapienti arrangiamenti dei sintetizzatori, del basso e del pianoforte; i Laibach riprendono sì “God Save the Queen”, ma tormentano la “noble Queen” con i ricordi (passati o presenti?) della politica espansionistica e coloniale inglese (“So you still believe you’re ruling the World? So you still believe you’re superior?”), creando ancora una volta un ritratto fortemente ironico, enfatizzato dal coro soave e dalle strofe sprezzanti.
E’ il rombo del cannone, invece, a introdurre “Rossiya”: il principale tema trattato è quello della libertà, (tornato peraltro tristemente d’attualità proprio in questi giorni a causa dell’omicidio della giornalista Anna Politkovskaya e dell’agente Alexander Litvinenko), da sempre critico in una nazione eternamente combattuta fra grandi ideali (“The Unbreakable Union – Of Fraternal States - United Forever, in Great Russia’s Embrace”) e una realtà particolarmente dura (“Where Suppression of Freedom is Frozen in Ice” e più tardi, “Arise, Prisoners of Starvation... Let’s Break Free, The World’s Changing”). Da citare le piccole sottigliezze utilizzate anche in “Rossiya” (caratterizzata come prevedibile da alcuni tocchi melodici di matrice slava), quale, ad esempio, l’ottima resa del possente e monolitico coro centrale dell’inno russo (derivato da quello sovietico), meno gelido del resto del brano poiché cantato dall’innocente voce di un coro infantile femminile.

In “Francia”, come prevedibile, i Laibach mettono il dito nella piaga andando a toccare, in modo peraltro abbastanza ambiguo, i recenti disordini che hanno piagato le banlieues parigine: nel brano più violento di “Volk” (nonché apice del disco), i moniti dei Laibach sono amplificati da synth acidi, pianoforti carichi di tensione, beats dolorosi: il classico motto transalpino (“libertà, uguaglianza, fratellanza”) stride anacronisticamente con le parole della Marsigliese, re-indirizzate verso i ribelli dei ghetti (“traditori, criminali, delinquenti, schiavi”); musicalmente, sono apprezzabili gli echi noise e gli abbrivi industriali di fine brano, che godono di un groove eccezionale e fanno di “Francia” un episodio sconvolgente (agghiacciante il tetro “Why Do they Want to be Us?” di Milan, piazzato immediatamente dopo che un’angelica voce femminile aveva accennato uno speranzoso “Libertè”).
Ma l’atmosfera cambia completamente con il brano successivo, “Italia”, dalle sonorità sdolcinate, distese e mediterranee: i Laibach aggiungono tastiere calde e avvolgenti alla recita dell’Inno di Mameli, creando un brano in cui i temi della speranza e dell’unità compaiono senza critiche più o meno velate; e se i mandolini a fine canzone vi urteranno i nervi, aspettate di sentire a chi è andata peggio: “España” è stracolma di stereotipi e cliché, tra nacchere, esultanza da pubblico stile corrida, cori “Triumpha, España!” e cinici richiami all’età imperiale spagnola – nonostante alcune scelte stilistiche risultino abbastanza stucchevoli, il settimo brano rimane comunque l’ultimo dei ‘centri pieni’ di Volk, grazie agli intermezzi latineggianti mischiati alle roboanti strutture Techno.

Da qui in poi, il disco entra in una fase calante, riuscendo a risultare ispirato solo in tre altri episodi: splendida è infatti “Yisra’el”, che perde di compattezza nel bridge, ma gode di un fascino misterioso e ipnotico, proprio come la terra descritta, da millenni al centro di lotte (“my nation, in the land of struggle...”) – anche qui, l’unione fra melodie tradizionali (mediorientali, in questo caso, ma i Silence hanno lavorato bene in tutte le aree ‘geografiche’ analizzate) e ritmi elettronici si realizza con pieno successo. Simile, ma meno concreta, la buona “Türkiye”, mentre “Vaticanae”, come prevedibile, è un soave intermezzo di musica sacrale e organistica.
Ridondanti o irritanti, invece, le interpretazioni relative a Cina (veramente troppo distante dal Laibach-sound), Giappone (nemmeno l’orchestra di 40 elementi impiegata riesce a risollevarne le sorti), Slovenia (irrimediabilmente anonima) e NSK (lo stato-virtuale di cui i Laibach sono portabandiera), messe malamente a fuoco e troppo spesso eccedenti in lentezza e indugi, ed incapaci perciò di trovare una forza espressiva degna di rivaleggiare con la prima parte del disco.

“Volk” non ha più nulla della spinta sperimentale, innovativa e sensazionale che fece dei Laibach degli straordinari interpreti della musica industriale d’avanguardia negli anni ’80, ma ha fra le sue caratteristiche pregi innegabili, essendo un disco rifinito e prodotto con titanica precisione e cura sia nell’aspetto musicale che in quello tematico, un disco che si assimila in fretta e che ha saputo misurarsi, peraltro con buoni risultati, in un ambito difficile e spigoloso.
Questo è un disco che si propone di "commentare la pop culture", e di farlo “dall’interno”; come tale, è impregnato di suoni più mainstream e orecchiabili di quelli che fecero grandi i Laibach: questa novella fatica del collettivo sloveno è pertanto consigliata, oltre ai fans più open-minded dei Laibach, anche ai semplici curiosi, che possono iniziare a fare breccia in questo strano mondo di provocazioni ed eccessi partendo da un disco relativamente semplice ma dotato di un fascino tutto suo, donatogli dall’idea originale e indovinata che sta alla base di esso.


LINKS PER L’ASCOLTO:
My Space dei Laibach (con brani in streaming)
Video di "Anglia "

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