Voto: 
8.5 / 10
Autore: 
A. Giulio Magliulo
Etichetta: 
Matador
Anno: 
2011
Line-Up: 
- Kurt Vile: vocals, guitar
- Jesse Trbovich: guitars
- Mike Zanghi: drums
- Adam Granduciel: guitar, mellotron, percussion
Tracklist: 
1. Baby's Arms
2. Jesus Fever
3. Puppet To the Man
4. On Tour
5. Society is My Friend
6. Runner Ups
7. In My Time
8. Peeping Tomboy
9. Smoke Ring For My Halo
10. Ghost Town
Kurt Vile

Smoke Ring for My Halo

Smoke Ring For My Halo è l'album che ho ascoltato di più nel 2011, come – ho scoperto poi - è già successo in passato a Kim Gordon con il precedente full-lenght di Kurt Vile.

Un'assuefazione immediata ma non per tutti, visto che le recensioni sull'ultimo album dell'ex War on Drugs di Philadelphia non sempre son state lusinghiere.

Investito dell'accusa principale di ispirarsi ai tanti che han fatto grande il rock americano, dai soliti songwriters ai più moderni cantautori indie, senza però possedere realmente una scrittura incisiva, tendiamo sinceramente a credere che parte di questa critica sia stata indotta a tali superficiali giudizi sia dalla gran quantità di dischi validi e di grandi ritorni di quest'anno, sia a causa di un atteggiamento un pò prevenuto nei confronti di quegli artisti che sia a livello di voce che nell'arredo estetico generale della loro musica provocano una immediata antipatia nell'audience.

Per intendersi, quella di personaggi alla Mascis o alla Lou Reed, nomi non tirati in ballo a caso, essendo i referenti spirituali della musica di Kurt Vile ed essendo quest'ultimo l'anello mancante tra i due, o meglio, tra queste due generazioni rock che tra losers di ieri e slackers di oggi hanno ben delineato le coordinate di certo costume americano meglio di qualsiasi sociologo.

E se un'icona come Lou Reed può sembrare irraggiungibile, non lo è invece quella di Jay Mascis che ha voluto Kurt Vile presente sul suo ultimo album oltre che in tour promozionale, insieme alla sua backing band, The Violators, in quello che sembra simbolicamente un passaggio di testimone.

Questi musicisti ed i loro dischi pagano le conseguenze di essere fortemente caratterizzati; bastano poche note per essere immediatamente introdotti nel loro mondo senza alcuna possibilità di appiglio, figurarsi poi se questi personaggi soffrono di un ego smisurato e talvolta difficile; figurarsi se uno non sopporta la voce nasale di Mascis o il talking biascicato di Lou Reed: dovrà rinunciare a questi artisti senza alcuna possibilità di recupero.

Allo stesso modo alle prime note di Baby's Arms si entra nel mondo di Kurt Vile, una canzone intima, che risente di una mestizia metropolitana, di un caldo torpore che non è lo stesso delle confortevoli camerette borghesi di Mascis, dei plaid a quadrettoni e delle baite in montagna.                                                                           Con Jesus Fever si intuiscono le antiche passioni musicali del nostro, visto il suo chitarrismo che dietro una apparenza semplice nasconde delle soluzioni armoniche alquanto complesse; inoltre una certa causticità delle liriche, con i suoi riferimenti religiosi, non può non far pensare anche a Dylan. Puppet To The Man con le sue chitarre distorte ma non troppo può corrispondere idealmente a quella che oggi può essere la nuova epica rock americana alla Elliot Smith: basso profilo, grandi intuizioni ed ispirazione, testi obliqui e sfuggenti che inducono a riflettere.

On Tour, forse la più mascisiana del lotto, intimista, indolente e dolce, contiene tutti quegli elementi che inducono a definire erroneamente 'folk' una canzone così; niente di più sbagliato poichè c'è tanto più Sonic Youth qui che in molti album noise usciti quest'anno e non mi riferisco affatto alla violenza del suono: chi ha ascoltato il Thurston Moore solista di quest'anno può capire.

Di contro, Society Is My Friend, la più pop a denti stretti, è in realtà la folk-song dell'album, ben mascherata dallo straniamento della voce di Vile, dalle sue frasi forzate alle ottave superiori a sottolineare un disagio ed un'inadeguatezza; pagina dunque di forte critica sociale e con dei richiami esotici, quasi da musica indiana (d'America) sulla base di una solida urban song.

Una struttura abbastanza consolidata quindi, un arpeggio iniziale che può diventare tema dominante o bridge per ogni canzone, da Runner Ups a Peeping Tomboy e valida quindi anche per altri brani.

Ma ciò che conta davvero per l'ascoltatore, in Kurt Vile, è quanto detto inizialmente: se a pelle quella voce monotona e quelle atmosfere vi ipnotizzano allora avrete un nuovo riferimento per il rock a stelle e strisce a venire (per molti degli artisti prodotti da John Agnello è stato così), se invece vi irrita e basta, non riuscirete mai a carpire la semplice profondità delle sue trame e questo Smoke Ring For My Halo non sarà stato che uno dei tanti dischetti indie del 2011.

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