Voto: 
8.2 / 10
Autore: 
Paolo Bellipanni
Etichetta: 
Enemieslist
Anno: 
2008
Line-Up: 

- Dan Barret, Tim Macuga - Tutte le musiche, tutti gli strumenti

Tracklist: 

Disc 1: "The Plow That Broke the Plains"
1. A Quick One Before The Eternal Worm Devours Connecticut
2. Bloodhail
3. The Big Gloom
4. Hunter
5. Telephony
6.Who Would Leave Their Son Out In The Sun
7. There Is No Food

Disc 2: "The Future"
1. Waiting For Black Metal Records To Come In The Mail
2. Holy Fucking Shit: 40,000
3. Deep, Deep
4. The Future
5. I Don't Love
6. Earthmover



P.S. Deathconsciousness non è disponibile in nessun negozio di musica. Per avere una copia del disco contattare tramite e-mail il titolare dell'etichetta Enemieslist all'indirizzo di posta: dan@enemieslist.net

Have a Nice Life

Deathconsciousness

C'era una volta il dark...

Ma pare che una sua rinascita sia avvenuta, in silenzio, nei sotterranei della musica, all'oscuro di tutto e tutti, lontano dalla luce dei riflettori, per emergere poi come un quasi mistico vangelo, una celebrata profezia.
Spesso e volentieri il sepolcrale tesoro della wave ottantiana e del suo abisso gotico è stato aperto, o meglio, forzato per estirparne il valore intrinseco, ma sempre con scarsi risultati.
Riaffrontare quel passato così ricco e altrettanto lontano ha rappresentato e rappresenta tutt'ora una sfida per una musica, quella del 2000, persa tra fugaci, e spesso vani, stimoli d'innovazione e costanti richiami all'intramontabile fascino del suono del passato: il fatto che tanti progetti, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna e al resto d'Europa, si siano calati in questa sorta di impresa impossibile, testimonia il fermento, la voglia e, per certi tratti, la necessità di rispolverare quella musica che, se all'epoca aprì nuovi scenari e orizzonti surreali, si pone adesso, dopo anni di assoluto silenzio, come "nuova" chiave d'ispirazione per l'enorme moltitudine di band contemporanee alla ricerca di un proprio linguaggio originale.
E' per questo motivo che introdurre gli Have a Nice Life è tutt'altro che facile. Perchè il duo statunitense di Dan Barret e Tim Macuga, formatosi agli inizi del nuovo millennio nel nome di un progetto oscuro e criptico, è forse l'unica esperienza musicale attuale capace non soltanto di intraprendere l'impresa impossibile di cui si parlava prima, ma di portarla a termine, diventando quasi un caso sotterraneo per il panorama alternativo internazionale. Tutto questo ha un nome, emblematico e che più diretto non si può: Deathconsciousness.

Dopo ben cinque anni passati a scrivere, registrare, cancellare e modificare, gli Have a Nice Life hanno donato alla musica un lavoro mastodontico, che molto probabilmente la segnerà in maniera indelebile; Deathconsciousness è un concept-album di quasi un'ora e mezza diviso in due dischi e arricchito da un booklet di 75 pagine a dir poco esauriente: un terrificante colosso di inquietudine, male di vivere e sofferenza, un turbine di stati d'animo che combattono e parole che si lacerano nella più dolorosa cupezza esistenziale. Sembra quasi di rivivere le atmosfere dei Joy Division filtrate attraverso i più strazianti incubi degli Swans e le ipnotiche distensioni sonore di matrice noise/dream pop, ma non solo, perchè in Deathconsciousness c'è ancora spazio per abissali discese tra industrial e drone, fumosi miraggi post rock e costruzioni ritmiche nel segno dei migliori Sisters of Mercy. Gli Have a Nice Life hanno preso venticinque anni di musica, li hanno rielaborati attraverso una creatività compositiva superiore e hanno espresso al meglio ciò che ancora oggi, dopo anni di evoluzioni e cambiamenti, si intende con il termine "gothic". Chi pensa che quest'esoterico universo è stato per sempre seppellito deve ricredersi, perchè qui ci ritroviamo di fronte ad un disco di assoluto valore, un'incantevole magia tra il lugubre e il poetico, lo straziante e il riflessivo, una riflessione interiore dall'impressionante potenza evocativa, tanto che per l'intensità atmosferica mostrata il gruppo quasi ricorda, sebbene sotto differente ottica, quei Black Tape for a Blue Girl che nel 1996 ancor di più sconvolsero e reinventarono le radici del genere.

Ogni singolo brano di Deathconsciousness è un gioiello di dolore, tensione e alienazione emotiva. I suoni si dilatano lentamente come il più nero degli inchiosrti che scivola inesorabile lungo pagine vuote sconfinando in un cosmo sotterraneo perso tra residui di un inquietante drammatismo e una smorzata ricerca di equilibrio interiore. A Quick One Before the Eternal Worm Devours Connecticutt è il primo leggero, soave, avvolgente sussulto di Deathconsciousness, grazie ai fragili respiri di una chitarra acustica sofferente e abbandonata e le eteree cornici ambient che la circondano: anche se il brano appare semplicemente come apertura del disco, il suo nucleo più profondo già prelude, anche se non sotto il profilo prettamente stilistico, all'intensità che le tracce seguenti nascondono al loro interno.
Come ad esempio Bloodhail, primo capolavoro del disco con i suoi toni tragici e rassegnati: qui l'assetto stilistico-strumentale già presenta una costruzione decisamente più ricca e profonda e di conseguenza inquadrata in una dimensione ancora più sofferta; le chitarre abbandonano la leggerezza dell'opener per immergersi in un'andamento ruvido e funereo su cui si dipanano i commoventi intrecci vocali di Barret e Macuga che vanno ad idealizzare una sorta di lacrimante messa underground.
Ma ogni minimo frammento, ogni singola canzone di Deathconsciousness è un gioiello che brilla di luce propria e che apre le mille porte di questo tragico limbo sospeso tra i richiami di un paradiso perduto e il grigiore del purgatorio umano: non c'è spazio per nessun inferno, non ci sono fiamme nè diavoli, ma semplicemente i fantasmi della nostra anima avvolti in un freddo gelido che penetra e immobilizza.
Una sensazione di smarrimento e tristezza che prosegue con le disorientanti correnti di The Big Gloom, un lamento di chitarre distorte (come la tradizione noise/dream pop insegna) e di voci che sembrano richiami angelici provenienti da un mondo remoto, poi con Telephony e Hunter che si smarriscono meravigliosamente in oscure rivisitazioni del dark ottantiano di Joy Division e Sisters of Mercy, infine con Who Would Leave Their Son Out in the Sun, in cui le chitarre riprendono le sembianze assunte nella opener, ma se prima il suono delle 6 corde si alienava da qualsiasi funzione discorsiva, adesso acquista la profonda carica atmosferica di una sofferenza artistica a stento trattenuta. La chiusura del primo dei due dischi è affidata alla stupenda There Is No Food, un ritratto della straziante introspezione dell'uomo e della sua perenne malinconia, dapprima introdotta da morbidi rintocchi elettronici e da un soave accompagnamento acustico, poi abbandonata a travolgenti esplosioni sonore che raggiungono l'asprezza del drone e ne rappresentano al meglio l'opprimente atmosfera di fondo.

Il secondo disco si apre sotto una luce completamente differente, meno soffusa e più incalzante, lasciando da parte le magie atmosferiche delle prime canzoni e la loro onnipresente malinconia per dirigersi verso un'approccio rabbioso e decisamente più duro. Inevitabile per questo riportarsi indietro nel tempo di vent'anni, afferrare il dark nel suo lato più isolazionista, visionario e iconoclasta, approfondirlo e rielaborarlo attraverso una verve creativa estremamente ricercata. Le prime due tracce del secondo blocco esprimono al meglio questo irrigidimento atmosferico dettato da chitarre distorte e ritmi incalzanti: Waiting for Black Metal Records to Come in the Mail oscilla tra riff rabbiosi, i soliti commoventi intrecci vocali e aperture melodiche mozzafiato (da sentire il fantastico refrain del pezzo), preludendo alla cupezza e alle fantasie notturne di Holy Fucking Shit: 40,000, altro brano di assoluto spessore nelle sue ricercate commistioni strumentali e negli innalzamenti atmosferici che ne derivano di conseguenza. Con The Future viene invece fuori il lato più inquietante e visionario di Deathconsciousness, grazie ad un andamento martellante e alla comparsa di squisite ornamentazioni elettroniche dal sapore decisamente apocalittico, mentre sta alla successiva Deep, Deep esprimere l'essenza più "moderna" del gruppo attraverso un riffing movimentato e, per certi versi ballabile, con irruenti sintetizzatori a delineare un'atmosfera più leggera e d'altra parte meno vincolata all'oscura poesia che dominava nel primo disco e che viene a tratti ripresa in I Don't Love, ballata tanto solare nelle melodie quanto ipnotica nei suoi disorientanti arrangiamenti.
Si arriva così all'ultimo brano di Deathconsciousness, ovvero quella Earthmove che raccoglie tutto ciò che è stato seminato e lo riassembla nei suoi interminabili 11 minuti di durata: dalle tinte più shoegaze ai riferimenti gothic, passando per le eruzioni drone e i più emblematici fraseggi ottantiani, il colosso conclusivo eleva la tristezza, il disagio, l'inquietudine, il malessere e le lugubri riflessioni del disco attraverso un songwriting sapientemente controllato da cui scaturisce un universo emotivo fatto di strazianti distorsioni e interminabili anestesie atmosferiche.

Gli Have a Nice Life (che, ricordiamo, sono due perfetti sconosciuti) hanno compiuto un'impresa unica, scalfendo nelle umide rocce sotterranee un'opera di straordinario valore; sembra di essere tornati indietro nel tempo e contemporaneamente essere giunti alla sua evoluzione futura, e questo perchè il collegamento tra la musica del passato e le sperimentazioni odierne è stato costruito con una classe e un talento da invidiare. Un'immersione continua negli incubi atroci e nelle anelate (ma mai raggiunte) redenzioni dell'animo umano: il Nuovo Testamento del gothic è stato scritto, non ci resta che sfogliare le sue pagine, toccare il suo inchiostro nero e assorbire quella, Kundera permettendo, insostenibile "pesantezza" dell'essere che vi dimora poeticamente all'interno.
 

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