Voto: 
6.0 / 10
Autore: 
Paolo Bellipanni
Genere: 
Etichetta: 
Coardboard
Anno: 
2007
Line-Up: 

- Ezra Buchla - Voce, Programmazione
- Erika Anderson - Chitarra
- Corey Fogel - Batteria, Percussioni

Tracklist: 

1. Fargo
2. Rope
3. Fake July
4. White Like Heaven
5. When It Burned
6. Subside
7. Clawless
8. Mercy Springs
9. Advice
10. Cherylee

Gowns

Red State

Rumorosa, fitta, tesa e disturbante, la musica dei Gowns, giunti nel 2007 alla prima fatica discografica Red State, si è dimostrata come uno dei casi musicali più controversi e peculari di questo ultimo anno all'insegna dell'avanguardia. Forse leggermente "pompati" dall'etichetta e fatti passare, con fin troppa fantasia, come la band più sperimentale e innovatrice di quest'ultimo periodo (merito di questo va dato soprattutto al background dei singoli musicisti qui impegnati), i Gowns hanno costruito una proposta musicale che, se da una parte risulta interessantissima per le fugaci sfumature tecnico-compositive che la compongono, dall'altra si va semplicemente ad affiancare alla già elevata mole di gruppi persi nell'interminabile ricerca di un risvolto intellettuale della propria musica. Ma aldilà di giudizi pseudo estetici i ragazzi ci danno dentro e lo dimostrano sin da subito attraverso questo controverso debut album.

Red State
è un inno alla fantasia, al disordine musicale, e ad una sperimentazione ricercata ma tutt'altro che sfarzosa. I brani che lo compongono scorrono infatti lungo sentieri illuminati da migliaia di luci e colori diversi: un'elettronica distesa e alleggerita, oppressivi effetti a cavallo tra noise e drone, sprazzi di post rock lento e maligno e oniriche cavalcate folk vanno infatti a costruire l'esoscheletro del disco, che si snoda all'interno di atmosfere sempre contorte e sospese nelle nebbie di un'aria in cui selvaggio e macchinoso diventano inscindibili radici, anche se dall'opener Fargo, l'idea che ci si potrebbe fare virerebbe su diversi lidi. L'arioso riff di synth tenuto dall'inizio alla fine del brano supporta responsori vocali pacati ma in qualche modo sofferti, che evocano lande oniriche all'insegna della leggerezza, ma già con Rope il passo cambia e la durezza degli arrangiamenti strumentali comincia a venire fuori: la voce del singer/producer Ezra Buchla prosegue su sponde rauche e dolorose che questa volta scivolano su un tappeto sonoro in cui le fugaci apparizioni elettroniche e le improvvise scosse effettistiche colorano di un grigio spento e metallico l'intera atmosfera. Ma anche quando i Gowns decidono di esprimersi attraverso linee compositive più aperte e solari la componente disturbante e rumorosa fa "scortesemente" ingresso, andando a distorcere, come succede ad esempio in Fake July, la pacatezza delle chitarre acustiche vittime in questo caso di un folk psicotico e malato. Da qui in poi il sound del gruppo prende una decisa sterzata, mostrando il suo lato più aggressivo che, però, spesso finisce per diventare quello più noioso e ripetitivo: White Like Heaven si dimostra infatti come un'accozzaglia di suoni, voci ed effetti presi alla rinfusa, Subside cerca di colpire con la sua "non elettronica" svuotata di ritmo ed enfasi ma sfortunatamente non ci riesce, e quando i distesi riverberi vocali di Clawless fanno ingresso, allora non si capisce più su che direzione il disco scorra.

Quello che personalmente risulta essere il problema di fondo del lavoro va a riscontrarsi nel suo continuo e nervoso ostinarsi a non ricercare un preciso tipo di coesione stilistica o di leitmotiv generale, presentando una musica che sa abbagliare per la propria ricchezza cromatica ma, d'altra parte, si dimostra disunita e tutt'altro che compatta. La varietà espressiva di Red State si perde infatti in un calderone di sperimentazioni nocive a loro stesse, in quanto i singoli elementi caratteristici dello stile dei Gowns entrano in conflitto oscurandosi a vicenda e, invece di produrre contrasti timbrici e atmosferici, si immergono in questo "hide and seek" di suoni da cui poi, inevitabilmente, non riescono più ad uscire. Eppure canzoni come l'ossessiva e claustrofobica Mercy Spring o la conclusiva Cherylee che con la sua macchinosa tristezza pone fine al disco, sembravano poter risolvere questo problema, sempre se problema può essere chiamato, andando ad esprimersi in una dimensione emotivo-atmosferica più compatta e penetrante. A tratti quasi non si riesce a capire se la band statunitense si cimenti consciamente o no in questo "nonsenso" compositivo, in cui l'enorme varietà di arrangiamenti e suggestioni atmosferiche si autodistrugge, sottostando ad una serie di canoni stlistici che invece di unire queste componenti, le staccano separandole senza rimedio. La sperimentazione va sempre accolta, per il bene della musica, ma quando questo sostantivo diventa fin troppo abusato, accorgersene diventa una questione immediata: belle idee, gradevoli intuizioni, ma fino a che non cambia quest'attitudine subdolamente travestita da avanguardista, non si va da nessuna parte, o meglio, ci si avvia, ma ci si ferma subito.

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