Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Damiano Cembali
Genere: 
Etichetta: 
SideOneDummy Records
Anno: 
2010
Line-Up: 

:
- Brian Fallon - voce, chitarra
- Alex Rosamilia - chitarra, voce
- Alex Levine - basso, voce
- Benny Horowitz - batteria

Tracklist: 

:
1. American Slang (03:45)
2. Stay Lucky (03:09)
3. Bring It On (03:27)
4. The Diamond Church Street Choir (03:12)
5. The Queen of Lower Chelsea (03:39)
6. Orphans (03:23)
7. Boxer (02:47)
8. Old Haunts (03:30)
9. The Spirit of Jazz (03:13)
10. We Did It When We Were Young (04:16)

Gaslight Anthem, The

American Slang

Un tuffo refrigerante nel passato prossimo della metà del Novecento, con quella freschezza giovanile, gioviale e gagliarda che appartiene soltanto a chi “fa le cose con passione”, nella più totale serenità dei propri mezzi tecnici e dei propri gusti artistici. Un raggio di sole dal languido fascino retrò ma dalla lucentezza squillante, viva, vitale, priva dell’ombra inquietante del “già sentito”. Un omaggio, un ricordo, un viaggio breve ma intenso, un percorso nella memoria col solo scopo di divertirsi e divertire: tutto questo è, in due parole soltanto, American Slang, ultima fatica dei The Gaslight Anthem. Sarebbe troppo facile, scontato anzi, sfoderare il solito cliché riguardante il terzo capitolo discografico di una band, che si definisce solitamente l’album della piena maturità o della definitiva consacrazione: per quanto tale sintesi gli calzi alla perfezione, confermando la formazione originaria del New Jersey tra le più interessanti ed originali proposte punk/alt rock contemporanee, American Slang gioca un ruolo ulteriormente gratificante perché riesce ad unire in maniera disarmante leggerezza e qualità, spensieratezza e rigore, elementi ben difficilmente conciliabili in maniera così essenziale e coinvolgente.

Difficile, davvero difficile riuscire a sintetizzare tutti gli scorci presenti in questo nuovo lavoro dei Gaslight Anthem: ogni singolo momento è infatti unico e particolare, diverso da tutti gli altri, tanto riconoscibile quanto apprezzabile, per ragioni differenti a seconda delle specifiche inclinazioni e peculiarità. Se l’opener American Slang ci offre uno spaccato significativo del (pop) rock americano, moderno eppure tradizionale, popolare eppure raffinato, con l’irresistibile Stay Lucky voliamo direttamente a cavallo fra i mitici Sixties e gli anni ’70, scatenandoci in danze tipicamente stars and stripes assolutamente irresistibili. Bring It On ci riporta nell’alveo tracciato dalla titletrack, ispirandosi ad atmosfere folk dalla malinconia assolata e incoraggiante, mentre The Diamond Church Street Choir prosegue sulla falsariga del revival storico, del immaginario collettivo americano, e, sulla scia dei suoi accordi estivi e trascinanti, sarà immediato e inevitabile ritrovarvi a schioccare a tempo le dita e cercare di canticchiare o fischiettare le poche ma efficaci note che ne compongono l’inciso. The Queen Of Lower Chelsea è forse l’episodio meno incisivo dell’album, ma, è bene chiarirlo, nemmeno in questo caso riusciamo a trarne un giudizio negativo: le sue venature crepuscolari, unite a quel ritmo cantilenante eppure profondamente evocativo, trovano perfettamente spazio, e contemporaneamente ragion d’essere, nonostante una lentezza congenita che richiede qualche ascolto di troppo, forse, per essere assimilata nella maniera più corretta ed opportuna. Superato questo breve attimo di smarrimento, Orphans ci trascina nuovamente al galoppo, in un rock vintage dalle stuzzicanti sfumature twist, lasciando il testimone alla meravigliosa Boxer, in cui respiriamo la spigliatezza e la suggestione dei musical vecchio stile unite alla grinta composta eppure dinamica di chi ha, alle spalle e di fronte a sé, radici e attitudine punk. Old Haunts introduce quindi il vero padrino musicale e spirituale dei Gaslight Anthem, The Boss, quel Bruce Springsteen cui loro dichiarano spudoratamente di ispirarsi  e che riescono ad omaggiare con straordinaria personalità ed invidiabile determinazione. Se The Spirit Of Jazz si veste della spigliatezza frizzante e irriverente del pop punk, è la traccia di chiusura a completare l’opera di totale fascinazione in cui si era prodotto finora American Slang: We Did It When We Were Young è, infatti, una ballad notturna, nostalgica, gravida di tenerezza e passione, soffice, soffusa, soffocata, sofferente, che, se ascoltata con sincera partecipazione, nella solitudine del buio, saprà forse estorcervi una lacrima di sincero compiacimento.

Insomma, tralasciando i precedenti eccessi di romanticismo, è certo che ai The Gaslight Anthem non manca davvero nulla per essere definiti come una delle più promettenti e soprattutto capaci formazioni della loro generazione: la loro personale rielaborazione del classico rock americano prosegue spedita, ancora florida di idee e fonti d’ispirazione, ulteriormente cresciuta nell’innata capacità di saperle tradurre in melodie semplici ma penetranti. Senza nulla togliere al notevole The ’59 Sound (ogni spiegazione aggiuntiva riguardante il titolo è perfettamente superflua), American Slang testimonia l’ennesimo salto di qualità da parte di una band che non finisce di stupire e che ha dato alle stampe un disco totale, che saprà letteralmente esaltare quanti apprezzano certe rievocazioni o, anche, sono soltanto curiosi di affacciarsi, o riaffacciarsi, a quell’epoca, a quel mondo, a quei suoni, letti ed interpretati, in maniera genuina e fragrante, niente’altro che da 4 giovani musicisti originari della East Coast. Personalmente, prendendo a prestito una formula tanto vuota e ritrita quanto onesta e veritiera nella fattispecie, disco dell’estate 2010.   

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