Voto: 
8.5 / 10
Autore: 
Damiano Cembali
Genere: 
Etichetta: 
Warner Bros.
Anno: 
2009
Line-Up: 

:
- Frank Carter - vocals
- Laurent "Lags" Barnard - guitar, vocals
- Steph Carter - guitar, vocals
- Stuart Gili-Ross - bass, vocals
- Lee Barratt - drums

Tracklist: 

:
01. The Riverbank (2:30)
02. London Is The Reason (3:11)
03. Leeches (3:46)
04. Black Eyes (2:51)
05. I Dread The Night (3:39)
06. Death Voices (3:55)
07. The Vulture (Acts I & II) (6:02)
08. The Riverbed (2:14)
09. The Great Forgiver (2:14)
10. Graves (feat. Simon Neil) (2:42)
11. Queensberry Rules (4:16)
12. Misery (5:09)
13. Crucifucks (7:59)

Gallows

Grey Britain

Dopo il clamoroso successo dell'album d'esordio, quell'Orchestra of Wolves distribuito dall'etichetta indipendente Epitaph Records, ed il contratto milionario appena firmato con la Warner Bros. Records, l'attesa per il nuovo lavoro dei famigerati Gallows era montata in maniera esponenziale: immancabile scetticismo, dovuto essenzialmente alle consuete accuse di mercificazione che puntualmente accompagnano le band hardcore punk che sbarcano presso una major, e reali aspettative di un ulteriore trionfo, non soltanto commerciale, si univano in maniera pressoché simbiotica, facendo di Grey Britain la punk release in assoluto più importante del precedente 2009. Per la verità, il carismatico leader Frank Carter aveva dato ampie rassicurazioni in proposito dichiarando, in una lunga intervista a Rock Sound, che Grey Britain, la cui release era appena stata annunciata per il successivo mese di maggio, sarebbe stato un album di 49 minuti di musica particolarmente aggressiva, e che il loro approdo ad una major non avrebbe assolutamente influenzato la band verso una proposta più "poppy" o comunque commercialmente appetibile.

Per comprendere lo spirito di questa seconda fatica della giovane formazione inglese, prodotta da Garth Richardson, nulla potrebbe essere più chiaro, significativo e sintetico allo stesso tempo delle parole rilasciate dallo stesso singer al magazine Kerrang!, dove, disquisendo delle premesse ideologiche che lo hanno accompagnato durante la genesi di Grey Britain, ha affermato con squisito candore che "la Gran Bretagna è fottuta e Grey Britain rappresenta in tutto e per tutto ciò che sta accadendo oggi, socialmente, politicamente ed economicamente, nel Regno Unito, e come ciò influisce" sulla gente. Per la verità, il titolo stesso dell'album non nasconde una certa amarezza, e allo stesso tempo un cupo realismo critico, nei confronti dell'amata Gran Bretagna:  in quest'ultimo lavoro, ben più del precedente, Frank Carter e soci riescono a miscelare in maniera esplosiva e drammaticamente violenta tutta la loro rabbia, viscerale ed incontenibile allo stesso tempo, incanalandola e lasciandola poi liberamente sgorgare attraverso liriche velenose e spesso crude, forgiate scientificamente per un timbro vocale aspro al punto tale da renderne difficoltosa, perfino fisicamente, la sopportazione. Tuttavia, l'ira rivoltosa e ferina di Grey Britain non rimane mai strettamente caotica, bensì mira ad issarsi al di sopra di una folla ululante e perfettamente consenziente, avvalendosi di ritmiche dinamiche, vigorose, spesso accattivanti al punto giusto per sfruttare ed esaltare al contempo la propria natura fortemente demagogica e nichilista.     

Dal punto di vista strettamente artistico, l'album in questione presenta alcune caratteristiche decisamente anticonvenzionali, soprattutto in relazione al proprio genere d'appartenenza: inattesa e sorprendente è certamente l'opener, la strumentale The Riverbank, omaggio a un Tamigi mesto, notturno, silente come non mai, improvvisamente squarciato dalla lugubre proclamazione d'intenti firmata Gallows. In secondo luogo, colpisce duramente la struttura perfettamente simmetrica dell'intero platter, che si presenta formalmente, non soltanto sotto il profilo contenutistico, come un vero e proprio concept album dedicato alla decadenza contemporanea della Terra d'Albione: a separare le 2 sezioni portanti provvede la lunga  The Vulture, a sua volta suddivisa in 2 atti ben distinti, il secondo decisamente tradizionale, il primo assolutamente stupefacente, dove l'animo più poetico e tremendamente malinconico di Frank Carter prende finalmente il sopravvento esalando la propria inesauribile acrimonia in vocals finalmente tenere e pochi, docili arpeggi di chitarra classica. La vena acustica si ripresenta prepotentemente nell'affascinante Misery, preda di un crescendo rovente che sancisce, a nostro giudizio, in pezzo in assoluto più riuscito ed emblematico di questo esaltante Grey Britain.

Il resto delle tracce risulta senza dubbio più in linea con gli stilemi hardcore punk, pur presentando elementi di assoluto interesse e raggiungendo vertici qualitativi doverosamente rimarchevoli, soprattutto nel contesto contemporaneo in cui versa il genere, decisamente bisognoso di elementi di valore: London Is The Reason e Leeches dimostrano un netto arricchimento del riffing, a dir poco travolgente, configurandosi entrambe come hit di sicuro affidamento (e live e commerciale); Black Eyes, pur incalzante e sostanzialmente brillante, difetta forse di esplosività, soprattutto nel chorus, elemento che si vede riscattato nella successiva I Dread The Night, dove ritorna prepotentemente il drumming in levare delle origini e dove assistiamo ad una sezione centrale di drammatica potenza mosh, a sancire uno dei prossimi must in sede live. Peccato soltanto per l'ingresso in medias res, che il sottoscritto fatica solitamente a digerire, per quanto non comprometta minimamente il giudizio complessivo finale. Prima della già citata The Vulture c'è giusto il tempo di lasciarsi trascinare, ancora una volta, dalla dirompente Death Voices, la cui disarmante semplicità le consente di farsi apprezzare pressoché universalmente da quanti, come chi vi scrive, amano un hardcore punk grezzo, ruvido, a tratti persino difficoltoso, eppure immediato, penetrante, irresistibilmente travolgente; la conclusione, straziante, affidata a pochi volteggi di violino dal nostalgico effetto-radio, sancisce alla perfezione il passaggio di consegne a quello che, come detto, è una delle sorprese più eclatanti di Grey Britain.

La seconda parte di quest'ultimo cala parzialmente di tono: dopo l'allarmante (in senso ironico, ascoltare per credere) The Riverbed (evidente analogia con l'introduttiva The Riverbank), intermezzo di efficacia sensazionale, che ribadisce ancora una volta la maggior cura dedicata alle linee di chitarra, l'unica vera delusione dell'album si presenta con The Great Forgiver, che, "imitando" in parte certo mathcore d'oltreoceano, si rivela infine confusionaria e scomposta, nonostante un finale in crescendo piuttosto appagante; le difficoltà riscontrate in questa traccia si riversano parzialmente anche nella parte iniziale della successiva Graves, che, però, a seguito di un netto cambio di tempo centrale, acquista improvvisamente spessore e comunicatività, proseguendo nitidamente il discorso narrativo. D'ora in avanti è un continuo crescendo: le ritmiche saltellanti di Quensberry Rules offrono gustose reminiscenze dell'hardcore punk '80, pur concedendosi un commiato quanto mai oscuro e sinistro, in parte rintracciabile nelle storiche atmosfere sabbathiane; Misery, come già anticipato, dopo un esordio contrassegnato da delicati rintocchi di pianoforte, esplode rapidamente in tutta la sua onda d'urto, grazie soprattutto ad un Frank Carter forse mai così determinato e bellicoso, che ritroviamo con rinnovato vigore nella successiva e conclusiva Crucifucks, epilogo solo in apparenza scontato, giacché fonde con esito sorprendentemente positivo una prima sezione di hc punk old school, un folle intermezzo dagli stuzzicanti risvolti blues (provate a schioccare le dita a tempo di musica e ve ne accorgerete immediatamente) e un'apparente declamazione finale di sole voce e batteria marziale, per poi lasciarsi andare ad un epico, drammatico, straziante abbraccio corale, con la terrea melodia di un pianoforte solitario, e per giunta di un tenero carillon, a guidare quella tristezza profonda, avvolgente, persino inebriante, eppure così luminosa, placida e speranzosa, che soltanto un coro di violini riesce a produrre, maneggiare, infondere.    

Qualunque conclusione, a questo punto, sarebbe del tutto superflua: se siete disposti ad affrontare una vera e propria opera hardcore punk, sopportando con vigore e pazienza la voce stridente di un artista carismatico e spudoratamente al vetriolo come Frank Carter, allora non potete assolutamente rinunciare a questo tirannico Grey Britain, i cui rari cali tono ci impediscono forse di definire apertamente capolavoro, ma che rilancia i Gallows come la più interessante formazione britannica del proprio genere e non solo. Peccato soltanto che il loro istrionico frontman, autore, tra l'altro, dell'affascinante e significativo art work, non faccia che ribadire in continuazione che"non sono altro che un hobby per cui vengo pagato"... 

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