Voto: 
9.0 / 10
Autore: 
A. Giulio Magliulo
Genere: 
Etichetta: 
Deram/Decca
Anno: 
1971
Line-Up: 

Bill Fay - Piano, Vocals

Nick Evans - Trombone

Bud Parkes - Trumpet

Tony Roberts - Flute (Alto), Flute (Tenor), Wind

Darryl Runswick - Bass, Bass (Acoustic), Bass (Electric), Bass Instrument

Alan Rushton - Drums

Ray Russell - Guitar

Tracklist: 

1. Omega Day
2. Don't Let My Marigolds Die
3. I Hear You Calling
4. Dust Filled Room
5. Till The Christ Come Back
6. Release Is In The Eye
7. Laughing Man
8. Inside The Keepers Pantry
9. Tell It Like It Is
10. Plan D
11. Pictures Of Adolf Again
12. Time Of The Last Persecution
13. Come A Day
14. Let All The Other Teddies Know

Bill Fay

Time of the Last Persecution

Dallo scrigno dei ’70 è venuto alla luce un altro preziosissimo monile per chi è in cerca di quei cantautori confidenziali in grado di suscitare emozioni antiche e forti.
Se vi piacciono Nick Drake e John Martyn, Van Morrison e Leonard Cohen, non dovreste mancare Bill Fay.
La differenza con le divinità citate, al di là delle profonde differenze stilistiche, è essenzialmente riassumibile in un aspetto: la rinuncia a qualsiasi capacità di seduzione.
Il che ovviamente non significa che Bill Fay non ci incanti, tutt’altro, ma significa piuttosto che lo fa in modo del tutto accidentale, quasi non volendo.

Senso di distacco e di isolamento sembra essere la piattaforma emozionale da cui prendono vita le creazioni di Bill Fay, andando a formare un quadro che riesce a sortire gli effetti diametralmente opposti alle intenzioni di partenza dell’autore. Come a volte succede quando l’arte non necessariamente si coniuga a doveri mercantili.
 Autore di un paio di album mai considerati all’inizio di quella decade magica, Bill Fay è oggi nuovamente sotto i riflettori grazie alla scoperta da parte di David Tibet che ha deciso di pubblicare Still Some Light come ulteriore tappa del suo viaggio circolare in cui il folk ha un ruolo decisivo.

La copertina di questo Times of Last Persecution presenta una foto in cui la somiglianza di Bill Fay con Manson è troppo forte (ed il nostro per anni si difenderà da tali affermazioni con una risposta inappuntabile: ‘in quegli anni tutti erano capelloni e baffuti’), mentre il titolo dell’album invece rimanda ad uno dei capitoli più dolorosi dell’epopea dei primi cristiani: impossibile non destare l’interesse di Mr. Current 93.
 
Sotto la densa coltre di folk, rock, blues, forse convenzionale per quegli anni, assolutamente eccezionale per questi, delle scie di rumore, delle particelle ‘free’, delle code elettriche anticipano di venti anni le dissonanze del noise e si impossessano di spazi di libertà e di follia musicali che a quei tempi neanche gli alfieri del nuovo sound hard potevano immaginarsi. L’aggettivo ‘ante-litteram’ è in questo caso quanto mai appropriato e l’arte incosciente è quella che da i risultati migliori.

I testi, basati su criptiche ambientazioni post-hippy sfocianti in un teologismo talvolta ermetico o finanche troppo semplicistico nella sue sincere invocazioni, avranno eccitato la mente di Tibet che avendo gran fiuto in fatto di evangelismo allucinato ha ben pensato di prendere lo svogliato cantautore e portarlo di peso in sala di registrazione.

Questo album del 1971, di quegli anni condensa molte cose, ma è lontano dai riflettori dell’ideologia, dalle manopole degli ampli necessariamente impostate sui livelli di saturazione, dall’autodistruzione programmatica e randomicamente suicida di tanti cantautori involontariamente esistenzialisti. Bill Fay è il vero esistenzialista ma non lo è di certo per l'abuso di droghe ed alcool; è il cantautore da scegliere quando la poesia malinconica di Nick Drake ha già raggiunto il suo apice e si può solo ridiscendere la china, quando Cohen insinua qualche dubbio di intellettualismo, quando i contenuti del primo Dylan son troppo impegnativi e politicamente 'agè'.
 
Un grande classico dimenticato, classico come il pianoforte che entra timido nell'opener Omega Day, classico come il rock blues con cui le chitarre si insinuano, in crescendo verso il finale in cui si accoppiano ai fiati, anch'essi sempre più decisi quando le note vanno verso l’alto per dirci che Fay ha incontrato Cristo in un bar ed al giorno del giudizio non manca poi molto.

Don’t Let My Marigolds Die, voce e chitarra acustica con fraseggio latineggiante è una delle più strazianti invocazioni di speranza mai sentite: il protagonista chiede semplicemente di lasciare il sole li dov'è e di non far morire le calendule, anche se sa che non son sue, poi sperare che sui marciapiedi di ferro di una città sempre più simile ad un museo possa rinascere l'erba.
I Hear You Calling vede ancora centrale il piano, ma le chitarre, più morbide, vanno verso un folk elettrificato e soavemente intorpidito, con un suono jazzy oggi ormai dimenticato. Il brano è una accorata preghiera a questo Messìa che verrà, in cui si chiede di farsi restituire il proprio tempo, visto che la maggior parte di esso è compresso dalla morsa del lavoro. Al di là del milieu religioso di cui Fay si avvale, il concetto sotteso è per noi di un'attualità sconcertante.
Dust Filled Room è formalmente perfetta nei suoi assoli e stacchi, suoni tondi e levigati ed un testo criptico in cui siediamo in questa stanza piena di fumo (metafora della vita e dell'esistenza stessa a volte indecifrabile, appunto fumosa) e vorremmo che la nostra sigaretta non finisse mai, ma finirà e su questa sedia ci finirà qualcun altro a fumare la sua sigaretta.
 Til the Christ Come Back, esplicita sin dal titolo, è fremito corale di strumenti vivi che contappuntano la voce straniante ed espressiva di Fay e che tendono ad ascendere con una sola unica nota, insistita e tirata allo spasimo, prova di resistenza fino al ritorno di Cristo.
Release Is In the Eye è un capolavoro di austerità incalzante, la voce è nostalgica ed in chiusura la chitarra elettrica si imbroncia distorta, anche se è la positività a regnare sovrana. Si canta la grandezza della vita, Fay dice che Cristo è ovunque, anche nello specchio del bagno, ma anche Satana è ovunque e vuole fotterci tutti, le nuvole sono sulle montagne, la luna è sull'acqua, lui ha avuto la sua parte, è contento così e lascia la sua sedia.
 Inside the Keepers Pantry è un altro affresco di due minuti e mezzo di una tristezza infinita e poetica, di una dolce malinconia contenuta a malapena in una elettricità serpeggiante ed un testo che con le sue 'vele spiegate' forse avrà ispirato le 'navi nere' di David Tibet (Current93 – Black Ships Ate The Sky).
 Picture of Adolf Again è forse la più conosciuta del lotto, ed anche gli Okkervil River la suonano dal vivo. Ricorda anche i Karate per la sequenza melodica, gli arrangiamenti e l'alternanza tra le parti. Ed in effetti è un brano molto 'contemporaneo' anche per le tematiche trattate: la rappresentazione mediatica del male, la sua negazione, la scarsa possibilità di scelta nei leader che ci rappresentano e quindi quella quasi obbligata di Cristo rispetto ad Hitler o a qualsiasi altro Cesare a venire.
Times of Last Persecution che da il nome all'album è molto più esplicita nell'affermare che questi sono i giorni delle maschere antigas, dei manganelli e dell'Anticristo. L'attesa per le navi dal cielo sembrano ora confermare pesantemente le fonti d'ispirazione di Tibet per il già citato lavoro dei Current 93, i quali la propongono anche dal vivo nei loro concerti in una versione drammaticissima e diversamente lacerante. In realtà sono tanti i testi più o meno sacri di varie civiltà e religioni che ci parlano di questo 'tòpos' mitico, dai Sumeri agli Hindu con il loro Vimana sanscrito (e David Tibet tra l'altro ha trascorso l'infanzia in Indonesia, dove è nato). Musicalmente è uno straziante memoriale pianistico che riassume le caratteristiche sia sonore che liriche di tutta l'opera: invocazione e preghiera, speranze e profetismo, come in Come a Day, jazzata nelle intenzioni del piano e dei fiati ma anche della batteria, eccitata nel finale più elettrico, in cui Fay dice che un giorno – che stiamo ancora aspettando – le nazioni non prevarranno tra di loro.

Un disco che deve essere riscoperto e destinato al posto che nella storia della musica rock merita, poiché ignorarlo solo per il suo messaggio spirituale, sicuramente da molti non condiviso, questo sì che sarebbe sacrilego. Per fortuna qualcuno non sospetto, come Jeff Tweedy dei Wilco e Jim'o Rourke l'han capito: che siano da esempio.
 

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