Voto: 
7.6 / 10
Autore: 
Jacopo Prada
Genere: 
Etichetta: 
Ferret Music/Andromeda
Anno: 
2007
Line-Up: 

- Keith Buckley - voce
- Jordan Buckley - chitarra
- Andy Williams - chitarra
- Mike "Ratboy" Novak - batteria

Guests:
- Dallas Green - voce nella nona traccia


Tracklist: 

1. No Son Of Mine (03:25)
2. Pigs Is Pigs (02:46)
3. Leatherneck (02:08)
4. We'rewolf (03:24)
5. Rebel Without Applause (03:22)
6. Cities And Years (02:57)
7. Rendez-Voodoo (03:15)
8. A Gentleman's Sport (02:34)
9. INRIhab (04:04)
10. Depressionista (02:29)
11. Buffalo Gals (03:27)
12. Imitation Is The Sincerest Form Of Battery (02:29)

Every Time I Die

The Big Dirty

Talvolta la linea di demarcazione fra underground e mainstream può essere più sottile di quanto ci si aspetti. Esistono quindi band a cavallo fra questa linea, a metà, cioè, tra i grandi nomi della scena ed i gruppi meno conosciuti. Tale situazione può rivelarsi estremamente favorevole, ma allo stesso tempo molto rischiosa: se da un lato, infatti, è possibile che il complesso in questione assimili gli aspetti positivi di entrambi gli “status” (vale a dire, appunto, underground e mainstream), dall’altro rischia di essere trascurato a causa della propria condizione, troppo in bilico per consentire al gruppo di emergere con successo. Un discorso del genere serve principalmente ad introdurre una band assai discussa come gli Every Time I Die, straordinariamente apprezzati da alcuni e ritenuti da altri dei semplici sconosciuti. Il gruppo di Buffalo si forma nel 1998 e dopo breve tempo firma per la Ferret Records, a cui è tutt’ora legato. Dall’uscita di Hot Damn! nel 2003 gli Every Time I Die restano inchiodati in una posizione di stallo, quella esplicata poco fa. Con il suo quarto album, intitolato The Big Dirty, il gruppo americano tenta di liberarsi finalmente da una condizione che, alla lunga, si sta rivelando davvero poco vantaggiosa.

Gli Every Time I Die non sono mai stati la classica Metalcore band ed è forse anche per questo motivo che la loro popolarità non raggiunge i livelli dei mostri sacri del genere. Rispetto a Killswitch Engage e As I Lay Dying, ad esempio, la band di Buffalo propone un sound meno inquadrato in stilemi prestabiliti. Inoltre, la diversità a livello di influenze fra i gruppi nominati e gli Every Time I Die è a dir poco abissale: se nei primi ritroviamo perlopiù elementi Death e qualche spunto Hardcore, per quanto riguarda Keith Buckley e compagni il discorso non è così immediato. Fin dall’iniziale e dirompente No Son Of Mine, le parti di chitarra firmate Every Time I Die risentono in maniera evidente di un certo Southern Rock tipicamente americano. Spesso viene coniato il termine Groove Metal per definire la proposta di alcuni gruppi musicalmente affini al combo statunitense. Sebbene non sia corretto utilizzare il termine per descrivere il sound di The Big Dirty, esso dà comunque l’idea di quanto gli Every Time I Die siano distanti dagli act più popolari del panorama Metalcore internazionale.

The Big Dirty non è assolutamente un disco per tutti, anzi, saranno in pochi a poter apprezzare fino in fondo delle sonorità così dure ed impetuose, che fanno del Metal lo strumento con il quale esprimere una tradizione Southern profondamente radicata. Di Hardcore vero e proprio, bene o male, non c’è traccia. Perché allora parlare di Metalcore? Il motivo risiede essenzialmente nei continui breakdown ritmici, dei quali The Big Dirty è carico. In secondo luogo perché sarebbe piuttosto difficile dare una definizione alternativa a The Big Dirty, lavoro che non cerca tanto di ripercorrere sentieri già battuti, quanto invece di mescolare influssi musicali derivanti da background differenti. Fra gli highlight del disco ricordiamo l’apparentemente orecchiabile We'rewolf, Rendez-Voodoo (dove rivivono lontanamente echi Garage Rock) e la devastante Imitation Is The Sincerest Form Of Battery. Da segnalare inoltra la presenza dietro al microfono di Dallas Green, frontman dei canadesi Alexisonfire, in INRIhab. Purtroppo, comunque, The Big Dirty tende ad annoiare alla lunga, risultando abbastanza monotono nelle soluzioni adottate e troppo impulsivo in alcune circostanze. Nulla da ridire invece sulla produzione, ottima come d’abitudine in casa Ferret. L’ultima nota positiva riguarda infine l’originalissima copertina, magra consolazione per chi credeva di trovare negli Every Time I Die gli ennesimi cloni di quel Metalcore tanto in voga negli ultimi anni.

Ancora una volta gli Every Time I Die hanno mancato l’appuntamento con il successo, restando relegati in una posizione che non è corretto definire underground, ma nemmeno mainstream. La sfortuna non c’entra, è piuttosto il sound del combo nordamericano ad averne irrimediabilmente “compromesso” la carriera. Una carriera che a questo punto dovrebbe aver perso ogni pretesa commerciale, ma che si preannuncia ancora lunga, e speriamo anche ricca di sorprese.

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