Voto: 
8.2 / 10
Autore: 
Stefano Pentassuglia
Genere: 
Etichetta: 
Rock Action
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Dairoku Seki - drums
- Tetsuya Fukagawa - sequencer, vocals
- Nobukata Kawai - guitar
- Masahiro Tobita - guitar
- Manabu Nakagawa - bass guitar
- Daichi Takasugi - guitar
- Takashi Kitaguchi - engineering
- Tatsuya Kase - mastering

Tracklist: 

1. Guidance - 3.21
2. Last Hours of Eternity - 7.05
3. Rain Clouds Running in a Holy Night - 8.32
4. Pieces of the Moon I Weaved - 4.48
5. Light and Solitude - 7.15
6. Dreams Coming to An End - 4.04
7. Incomplete - 1.25
8. Worn Heels and the Hands We Hold - 5.44
9. A Hint and the Incapacity - 6.44
10. A Breath Clad in Happiness - 6.25
11. 0 and 1 - 7.32
12. Your Hand - 3.04

Envy

Recitation

L'attesa per il ritorno dei giapponesi Envy è finita: il loro nuovo album Recitation, anticipato dal video del brano Worn Heels and the Hands We Hold, fa il suo ingresso nei negozi con il pesante fardello di stupire e far sognare quanto i precedenti A Dead Sinking Story, All the Footprints…, The Eyes of Singles Eared Prophet e anche Insomniac Doze.
Ora, chi scrive si rende conto che questa recensione potrebbe trarre in inganno il lettore, o quantomeno essere fraintesa.
Dire quindi che Recitation potrebbe lasciare un sottile amaro in bocca magari ai fan più sfegatati dell'ensemble giapponese non significa affatto voler minimamente svalutare quest’opera; del resto il voto finale parla da solo. Significa semplicemente che potreste aspettarvi qualcosa di… diverso. Ma di questo ne parleremo a fine recensione.

Insomniac Doze, si diceva. Il disco pubblicato nel 2006 dal combo nipponico spostava di molto i lidi del loro sound, verso un post-rock che solo a volte richiamava lo screamo degli esordi, e comunque più nella sensibilità che non nei suoni. Niente più violenza e brani disperati, sparati a mille come proiettili al cuore. Quel disco era il vero spartiacque tra i “vecchi” e i “nuovi” Envy, e bisogna partire da qui per comprendere come Recitation prosegua nel percorso già intrapreso 4 anni fa.
I nuovi Envy prevalgono, dunque. Eppure qui qualcosa è cambiato. Si è evoluto, più che altro. È come se avessero voluto stilare un compromesso, un patto di sangue tra le loro due correnti più forti, benché contraddittorie: da un lato una drammaticità profonda e sentita, che sfiora l’epicità in certi momenti, e dall’altro una dolcezza compositiva che sfiora nel lirismo ambientale di famosi act post-rock come Mono, Ef, Explosions in the Sky.
 
Il trailer menzionato all'inizio era solo un antipasto del disco e questo lo ritroviamo nell’opener Guidance, eterea, delicata (forse anche troppo). E qui tutto diventa chiaro e lucido: niente più violenza e disperazione. Gli Envy ora vogliono esplorare un nuovo volto dell’anima: quello più dolce e intimista. E così Last Hours of Eternity è una ballata nell’eterno, un’onda di melodia post-rock che ricorda molto da vicino i colleghi orientali Mono e il loro modus operandi. Le sue dolci spirali introducono uno dei pezzi forti dell’album, Rain Clouds Running in a Holy Night, con un giro di basso che si muove agilmente tra i territori ambientali e introduce poi le distorsioni delle chitarre. È una canzone che non ci si stancherebbe mai di ascoltare: travolgente, bellissima.
Un attacco emotivo come solo loro potevano scriverlo, prendendo però più ispirazione dalla scuola americana. Eppure non fa un po' storcere il naso la parte finale, una cavalcata che un po' spezza quell’atmosfera sognante che si era creata. In ogni caso, la canzone è un buon punto di partenza per capire la virata stilistica intrapresa dagli Envy.
Anche Dreams Coming to an End procede in questa direzione, facendo leva sull’aspetto più “emo” del gruppo e sulla voglia di risultare molto più “romantici” e sensibili di quanto non fossero precedentemente. Ottime melodie e riff coinvolgenti, ma nessun lirismo. Per questo dovremo aspettare Worn Heels and the Hands We Hold, introdotta dal delizioso arpeggio acustico Incomplete. Potrebbe essere definita come la portata principale dell’album e non per niente ci è stato girato un video. Possente, lirica, passionale. Un brano che forse non arriva ai livelli emotivi di altre canzoni composte in passato, eppure riesce a lacerare qualche pezzetto del nostro cuore, avvolgendoci in un vortice tormentato di emozioni che si eleva fino quasi all’auto-lesionismo e all’auto-citazionismo.
Le poesie giapponesi decantate dalla voce di Fugakawa a fine brano dichiarano appieno l’intento “poetico” che il gruppo ha voluto intraprendere con questa canzone (particolarmente rappresentativa) e con l’album in generale. Fantastica, eppure… non è ancora un capolavoro. Le sue accelerazioni lasciano spiazziati e le sue atmosfere avvolgono, eppure quella scintilla magica che su ritrovavano in canzoni come Chain Wandering Deeply qui non c’è. È altra pasta.
Per contro, questa elevazione spirituale viene attenuata da altri momenti più vicini a un semplice gusto ambientale, come in Light and Solitude, dalle atmosfere vicine al post-rock dei nostrani Giardini di Mirò, sostenute da una litania di sonorità quasi “natalizia”, che avrei visto bene come colonna sonora dei momenti più emotivi di qualche manga.
In altri momenti invece quell’esplosione ritorna a galla, come in Pieces of the Moon I Weaved, più propriamente envyana nelle melodie e nelle intensioni.
Ormai, insomma, l’intento dell’album è chiaro. La successiva A Hint and Capacity non fa che confermarlo, con pennellate di post-rock che più ambientale non si può, ma sostenute da quella loro tipica drammaticità che per l’occasione diventa più dolce, più soffusa, più delicata (spezzata, come ovvio, dai chitarroni man mano che il brano raggiunge il suo climax emozionale tramite i crescendo).
Eppure a questo punto la stessa carica emotiva non si sente più. È come se il gruppo fosse un po’ troppo sicuro dei propri mezzi e puntasse con insistenza sempre sugli stessi punti, senza cercare soluzioni alternative per spezzare in qualche modo la continuità del brano.
Recitation è insomma un disco che scorre senza intoppi, un unico e dolcissimo viaggio, ma la sua linearità alla lunga finisce quasi per stancare. A Bred Clad in Happiness fa tirare un po’ il fiato, con delle belle melodie sostenute che poi sfociano in un attacco emozionale degno del loro talento. Eppure, lo ripeto, per quanto questi brani siano meravigliosi, non convincono come quelli dei precedenti dischi. Troppa insistenza su quei giri, su quelle melodie che cercano di ricreare sempre lo stesso effetto.
Ma che volete che vi dica? Si tratta ugualmente di melodie di notevole spessore che farebbero impazzire lo stesso, e anche se forse lasciano leggermente più indifferenti in confronto a quelle dei precedenti album, gli occhi un po’ lucidi vengono comunque. C'è quasi l’impressione che se si ascoltasse questo disco senza conoscere minimamente gli Envy lo si considererebbe un capolavoro inarrivabile, pregno di sentimento, emozione, misticismo. E che invece sia proprio l'amore per il gruppo ciò che potrebbe, paradossalmente, impedire di gustarlo appieno.

Cosa dedurre quindi come conclusione? Da un certo punto di vista, questo “compromesso” tra due estremi (epica drammaticità e dolce lirismo, accantonando la violenza degli esordi) si è trattato di una scelta intelligente; quello che non convince completamente è stato piuttosto “il modo” in cui quest’idea è stata convertita su disco.
In altre parole, per quanto quest'album sia da ascoltare e goderne, non si può far a meno di notare alcuni difetti stilistici che potrebbero bloccare nell’abbandonarsi totalmente ad esso.
Alcuni suoi frangenti non appaiono ispirati al 100%, come nei dischi precedenti, ma piuttosto all’80%. È come se avessero avuto delle intuizioni geniali, com’era lecito aspettarsi, ma non le abbiano sviluppate al meglio dei propri mezzi, lasciandole talvolta in un “limbo” di melodie che, per quanto belle, non hanno la stessa forza emotiva di quelle che le attorniano nello stesso pezzo. I brani, insomma, emozionano quasi per intero. È quel “quasi” il problema: i giapponesi sviluppano idee fantastiche, uniscono epicità, melodia, lirismo compositivo, ma sembrano non avere sempre la stessa ispirazione necessaria a completare le composizioni, che vedono quindi la comparsa di soluzioni troppo semplicistiche e molto meno ispirate rispetto a quella che è la media, estremamente notevole, nella musica degli Envy.

Recitation è un disco splendido (com’era ovvio), leviamoci il dubbio. Ha tutti gli elementi giusti per essere il degno successore di Insomniac Doze. Ma non è il capolavoro che con tutta probabilità i fan sfegatati stavano attendendo e che forse li lascerà un po' delusi.
Tuttavia, la capacità compositiva degli Envy è fuori discussione, è enormemente sopra la media di moltissimi gruppi screamo/post-rock che cercano inutilmente di imitarli, e ciò è garanzia che l'album rimarrà a lungo nel lettore. Però quelle intuizioni, quella genialità, quell’eterna “scintilla” che aveva fatto di alcune vecchie composizioni delle pietre miliari nella storia dello screamo giapponese, questa volta, non ci sono. Cosa prevedibile, dal momento che la band è ormai sulla scena da anni.

Ma ad ogni modo, ciò è superfluo: Recitation è un gran disco, magnificamente arrangiato e fantasticamente eseguito, consigliato vivamente a tutti. E poco importa se non è il capolavoro assoluto degli Envy e se la sua qualità può apparire un po’ inferiore ai dischi precedenti. L’amaro in bocca lo sentirete solo se siete tra quella stretta cerchia di innamorati duri & puri del gruppo giapponese. Tutti gli altri avranno invece tra le mani un disco che sarà in grado di scaldare i loro cuori e le loro anime per molto, molto tempo.

Bentornati.

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