Voto: 
7.0 / 10
Autore: 
Stefano Puccio
Etichetta: 
Frenchkiss
Anno: 
2011
Line-Up: 

- Meric long – voce, chitarra
- Logan Kroeber – percussioni

Guests:
- Neko Case (The New Pornographers) – voci

Tracklist: 

1. Black Night
2. Going Under
3. Good
4. Sleep
5. Don't Try And Hide It
6. When Will You Go
7. Hunting Season
8. Companions
9. Don't Stop

Dodos, The

No Color

Era il 2008 quando il duo di San Francisco composto dal cantautore Meric Long e dal batterista Logan Kroeber sorprendeva un po' tutti grazie al piccolo gioiello intitolato Visiter. Con una registrazione lo-fi e tante idee applicate alla semplicità di una scarna ma briosa chitarra folk e di sognanti melodie vocali, come di smaliziate e variopinte strutture ritmiche, Visiter si metteva in luce come uno dei più originali e rocamboleschi prodotti all'interno del panorama del cosiddetto rock indipendente. Sfortunatamente, il successivo Time to Die, rilasciato nell'estate del 2009, non si rivelò essere la consacrazione definitiva; l'aggiunta del vibrafonista elettronico Keaton Snyder come terzo componente, ed il lavoro di produzione affidato a Phil Ek (già collaboratore dei Built to Spill e dei Fleet Foxes), quasi segno un'imminente svolta, in realtà portarono la band verso una strada sì, diversa, ma più convenzionale - facendole perdere d'un tratto l'incoscienza e la voglia di osare delle prime due uscite, ora mascherate da una presunta maturità stilistica che in fondo non era altro se non il riflesso di un lavoretto ben congegnato e decisamente prevedibile, seppure più curato rispetto al precedente.
Con questo No Color, i Dodos - tornati ad essere un duo - effettuano un passo in avanti e al contempo un passo "indietro": Ciò che ha permesso loro di riprendere, se vogliamo, "la retta via" con un lavoro più sincero ed in linea con le proprie qualità, è difatti un parziale ritorno al vecchio formato; non a caso il timone è affidato nuovamente allo storico producer John Askew.

Le coordinate stilistiche di No Color richiamano  - come preannunciato - quelle di Visiter, ma con un approccio di certo meno anarchico e spregiudicato, risultando calibrato per un formato che si avvicina a quello canzone, perciò maggiormente lineare; il risultato è dunque un album più compatto ed organico, ma per questo motivo anche meno sorprendente, a dispetto della maggiore varietà al suo interno.
Quello di cui ci si accorge immediatamente è il recupero, in primis delle fantasie ritmiche temporaneamente abbandonate - probabilmente reale punto di forza della band - e dello stile chitarristico tipicamente roots-folk, che si ispira a grandi linee a quello estroverso di John Fahey. A farne da contrappunto sono le interessanti trame melodiche vocali tessute da Long, la cui capacità in questo campo sembra non essersi ancora sopita, e le back vocals femminili dell'ospite Neko Case. A ciò si aggiunga anche l'utilizzo della chitarra elettrica, talvolta distorta, la cui presenza si fa più stabile, ad arricchire gli arrangiamenti - se non di molto dal punto di vista qualitativo, sicuramente da quello della quantità di soluzioni, rendendo il mood complessivo più denso e, in determinate occasioni, dilatato ed etereo.
Lo si può notare già nel blocco iniziale costituito dai primi tre brani: Black Night, che poggia su una cantilena definibile come l'occidentalizzazione di un tema tratto dalla cultura musicale nativo-americana, caratterizzata da ritmi "calcolati", e per l'appunto, da incursioni di chitarra elettrica che creano una certa profondità sonora;
Going Under, la quale presenta invece percussioni tribali a sostenere delle melodie più ortodosse, ed una chitarra marcata dal sapore stoner rock contrapposta alle armonie acustiche, è la prima impennata dei californiani; Good, riprendendo lo stile di canto dell'opener, si contraddistingue invece per dei richiami ai canadesi Arcade Fire.
Nei brani successivi sale in cattedra la chitarra acustica di Long: In Sleep infatti non compaiono gli screech sentiti in precedenza; il pezzo possiede una struttura più lineare, condita da archi e pianoforte, ed addolcita da cori, Don't Try And Hide It risulta essere ancora più scarna, ma il leitmotiv è sempre lo stesso. Su When Will You Go gli intecci acustici tornano ad essere supportati da quelli elettrici in un'atmosfera dream pop; lo stesso succede in Hunting Season, condita anche da uno xilofono, ma con un'anima più energica della precedente.  Con Companions si ha forse l'esempio che più si avvicina alle caratteristiche di Visiter: Il brano presenta difatti un arrangiamento molto genuino, ma quello che viene meno sono gli spunti quasi selvaggi del loro capolavoro, finendo così per essere uno degli episodi più anonimi del disco. Al termine Don't Stop si rivela quasi una sorpresa: A spiccare è certamente un ritrovato brio ritmico e delle fantasie chitarristiche che si collegano a Going Under nelle loro geometrie; una conclusione che fa almeno ben sperare.   

Neanche questa volta infatti - quasi a voler ironicamente tener fede al proprio nome - i Dodos riescono a spiccare il volo, ma se non altro ritrovano una formula dalla quale ripartire per il balzo successivo che, ci si augura, possa avere sorti migliori. Ciò non toglie che No Color sia comunque un'ottima uscita per una band che adesso si confronta con una crescita ed una maturazione, forse reali.
 

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