Voto: 
7.7 / 10
Autore: 
Paolo Bellipanni
Etichetta: 
HevyDevy
Anno: 
2009
Line-Up: 

- Devin Townsend - Voce, Chitarra, Programming, Arrangiamenti, Musiche, Produzione
Guests:
- Duris Maxwell - Batteria
- Jean Savoie - Basso
- Dave Young - Tastiere, Piano

Tracklist: 

1. A Monday
2. Coast
3. Disruptr
4. Gato
5. Terminal
6. Heaven Send
7. Ain't Never Gonna Win
8. Winter
9. Trainfire
10. Lady Helen
11. Ki
12. Quiet Riot
13. Demon League

Devin Townsend Project

Ki

Devin Townsend. Come non l'avete mai visto nè sentito.
Un cambio radicale, quasi totale, che del geniaccio canadese ha coinvolto tanto la testa (rasata e ormai orfana della sua vecchia, bizzarra capigliatura) quanto lo spirito, uscito ancora più robusto e visionario da una crisi d'identità che lo aveva letteralmente bloccato - creativamente ed emotivamente - nel vuoto.
Ki è la resurrezione, la risalita dalle ceneri di un artista unico e, che lo si voglia o no, inimitabile. Ed è anche un disco che col Devin Townsend che tutti conoscono non ha nulla a che fare. Gli Strapping Young Lad e i suoi svariati progetti (solisti e non) sono solo un ricordo, più sbiadito che mai. Si, perchè il Devin Townsend di Ki non è nè il Devin Townsend di Ziltoid nè quello di Ocean Machine: Biomech, non è più il Devin Townsend industriale e thrash nè quello prog, nemmeno quello che si perdeva in mastodontici viaggi metafisici shockanti e indefinibili. La premessa è per queso d'obbligo: Ki è un disco che può facilmente far storcere il naso ai vecchi fan del canadese e che può lasciare perplesso anche un ascoltatore non-metal abituato a tutt'altre sonorità. Questo perchè il disco in questione è l'inizio di un nuovo corso per un nuovo uomo, per un artista che è arrivato addirittura a rinnegare se stesso pur di riscoprirsi e reinventarsi.

Primo di una serie di quattro album - completata da Addicted (sempre del 2009), Deconstruction e Ghost (entrambi saranno rilasciati a Maggio 2010) - Ki è un lavoro alienante, per certi versi shockante e che sicuramente lascerà chiunque stupito e attonito di fronte alla sua mutevole ed enigmatica essenza. Di metal ormai è rimasto ben poco, se non qualcuno dei suoi stravaganti inserti distorti e inquietanti (l'agghiacciante follia che pervade l'acido refrain di Heaven Send, i momenti più martellanti di Disruputr e Gato) ad intervallare quando meno te l'aspetti un disegno compositivo che per il resto si dirige verso lidi stilistici diametralmente opposti. A rimanere ovviamente intatta è la creatività, ora più schizoide ora più pacata e riflessiva, di un Townsend mai apparso sotto una veste così ricercata e peculiare, capace senza il minimo sforzo di recintare l'ascoltatore in una dimensione aliena e stranamente gelida.

Già i tenui arpeggi dell'intro A Monday lasciano presagire il verificarsi di un qualcosa di inaspettato, lasciando però all'atmosfera sotterranea della successiva Coast il compito di svelare, secondo dopo secondo, il mondo interiore di Ki: le chitarre sono secche e sommesse, l'atmosfera indefinibile e sfuggente, la voce di Townsend stentorea e l'intero sound del pezzo sembra quasi compresso e risucchiato da un lento vortice interno, tanto inatteso quanto perfetto nell'accompagnare la mite massa orchestrale sottostante.
Ed è solo un piccolo assaggio di ciò che l'album continuerà a presentare senza sosta fino al suo termine; a fare da veicoli espressivi per l'inquieto spirito meditativo di Townsend ora ci sono soundscapes ambientali dannatamente fugaci e accoglienti, chitarre languide che dipingono melodie malinconiche e fraseggi strumentali continuamente sospesi tra prog, alt rock e jazz, richiamando spesso le fantasie in chiaroscuro dei Porcupine Tree ma riuscendo comunque a crogiolarsi in un habitat personale e ricercato in cui influenze e riferimenti stilistici vengono smussati e peculiarmente reinterpretati. Così accade con il tono più cupo e sofferto (quasi post-rock) delle splendide Winter e Terminal, così accade col sotterraneo rituale jazz-fusion di Ain't Never Gonna Win... o ancora con l'indefinibile contrasto tra retrogusto folk-country e impennate prog di Trainfire, tutti episodi che - ognuno con la sua differente atmosfera - stimolano, scandagliano ed elevano il genio interiore di un Townsend mai così intenso e sincero (le schitarrate folk di Quiet Riot), ricercato (i caleidoscopici cambi di mood e stili del gioiello Ki) e addirittura romantico (la toccante ballata Lady Helen).

Che sia meglio il nuovo o il vecchio Devin Townsend è un parere giustamente complesso che va lasciato ad ogni singolo ascoltatore, visto che il background musicale dell'artista e il suo inaspettato cambio di rotta stilistico giocano un ruolo tutt'altro che facile nel definire il valore e la qualità complessiva della musica. Per il solo coraggio mostrato da Townsend nell'intraprendere una strada così contorta e peculiare dopo un periodo di assoluto smarrimento interiore, Ki sarebbe un lavoro da premiare a priori ma, proprio per l'incredibile versatilità e ricercatezza su cui si fonda, ridursi a questo non serve minimamente. Ancora una volta la qualità c'è e si sente. Ancora una volta Devin Townsend, guarda un pò, ha fatto centro.


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