Voto: 
8.5 / 10
Autore: 
Stefano Pentassuglia
Etichetta: 
Autoproduzione
Anno: 
2014
Line-Up: 

Markus Luscombe - Voce, Basso

Matt Solis - Voce, Chitarra

Nick Cohon - Chitarra, Tastiera

Brennan Kunkel - Voce, Batteria

Tracklist: 

1. Eris

2. Daughter Of Void

3. Sold As A Crow

4. Waking Sleep

5. The Pythia

6. Broken Circle

7. Mark The Trail

8. A Sovereign Act

Cormorant

Earth Diver

Se c’è una cosa che dopo anni e anni di ascolti ancora non riesco a spiegarmi, è come mai la stampa musicale specializzata continui a ignorare e snobbare realtà affascinanti e band finalmente originali, che meriterebbero tutti gli onori di cronaca che un giornalista dedito a qualsiasi altro campo concederebbe ad uno scoop ben congeniato. È il caso dei Cormorant, band statunitense poco conosciuta nel Bel Paese, che non ha mai ricevuto dalla stampa italiana quelle attenzioni che, come spesso succede, sono state dedicate a gruppi tanto più blasonati quanto più poveri di idee.
A onor del vero, ci sarebbe da dire che i musicisti di San Francisco non si siano mai fatta troppa pubblicità e siano sempre rimasti sotto l’ala protettrice del “made it by yourself”, dell’autoproduzione e dell’indie più fiero, con la rigorosa scelta di pubblicare i propri dischi senza il supporto di alcuna casa discografica. Capitanata dal bassista/cantante Markus Luscombe e supportata dalla coppia d’asce Matt Solis e Nick Cohon, la creatura americana stupì il mondo del metal sotterraneo già nel 2011 con il precedente Dwellings per la sua capacità di mescolare le carte in modo certosino e di far risaltare influenze che andavano dai primi Opeth fino agli ultimi Mastodon, passando per band come Isis e addirittura i Sepultura.
Da questo punto di vista, il nuovo Earth Diver rappresenta sicuramente una naturale evoluzione nonché, come ogni buon terzo disco che si rispetti, l’impronta dell’ormai avvenuta maturazione dei nostri. Non che si tratti di un capolavoro, sia chiaro: manca ancora, nei cormorani, quella capacità di andare oltre, di potare le sonorità più ostiche e di premere l’acceleratore sulle idee più riuscite e originali. Ma in fondo non è di un capolavoro che c’è bisogno, quando qui c’è un album che riesce a far dimenticare ogni sua pecca con una virulenza tale da annientare ogni band che cerchi di osare altrettanto.


Si parlava di originalità, e in effetti era dai tempi dei primi Bokor che non mi capitava di ascoltare una tale ispirazione unita ad un’invidiabile conoscenza dei propri mezzi espressivi: progressive rock, black metal, death metal melodico, folk metal, sludge e post metal sono solo alcuni dei generi che i Cormorant riescono a mescolare sapientemente in un mix di esplosivo metal estremo, complesso, articolato ma anche immensamente piacevole all’ascolto, che comunque rimane non facile. Pochissime le band che riescono a reggere il paragone in termini di idee, forse i già citati Bokor e magari anche i Lo-Ruhamah di The Glory Of God. In ogni caso, si tratta di un album (e di una band) dalle infinite possibilità espressive e dalla carica compositiva di un toro infuriato. La sensibilità romantica dei primi Opeth qui si sposa con la raffinata attitudine compositiva dei Cynic (per quanto sia grande la distanza a livello musicale), in un saliscendi emotivo che deve tanto allo sludge sporco e progressivo di Rwake e Minsk quanto alla scuola black metal atmosferica dei Wolves In The Throne Room, senza dimenticare quella svedese di Watain e Naglfar; il tutto condito con uno spirito prog che non può non rimandare alle squisitezze soniche dei Green Carnation.


Eris è solo l’inizio di un lungo viaggio e di un trip mentale che inizia già accarezzando i sensi con le sue chitarre melodiche e dal sapore latino, prima che le distorsioni di Daughter Of Void arrivino a spazzare via tutto.
Daughter Of Void. Una canzone che, da sola, varrebbe l’intero album. Non tanto perché si tratta probabilmente del miglior brano nel platter, quanto perché potrebbe candidarsi ad essere una delle canzoni di metal estremo più ispirate di questo 2014. Il suo unico difetto è quello di durare troppo poco, se si pensa che i suoi 6 minuti e mezzo, per quanto sembrino abbondanti, potevano durare anche il doppio, il triplo e forse anche il quadruplo, per la quantità di idee in essi presenti. Fin troppi i riff e i cambi di tempo che si respirano nel pezzo, dalle atmosferiche chitarre iniziali che si trasformano in attacchi a metà tra lo sludge e il viking, in un’epica cavalcata che ricorda da vicino l’espressività melodica di certi Opeth. Ma l’idillio dura poco, spezzato dalla virulenza del black metal che si spegne in riffoni schiacciasassi che evolvono ancora, in un crescendo progressive di metal estremo che termina in un magniloquente riff finale.
Ma sono le chitarre liquide di Sold As A Crow a introdurre l’anima più black metal dei Cormorant, intrisa di emotività folk nella sua delicata progressività. Potrebbero persino essere scambiati per un gruppo folk-black, se solo non insistessero con le loro elaborate strutture chitarristiche, che a momenti ricordano persino i richiami mediorientali dei blackster israeliani Melechesh, senza contare un’anima doom che fa volentieri capolino nei momenti di stacco tra una sfuriata e l’altra.
Waking Sleep parte lenta e pacata, avvolgendo in cori vicini al prog/gothic dei primi Dark Suns per poi adagiarsi su territori di metal estremo sempre più variegati, quasi come se i Green Carnation e i Cynic ultima maniera si fossero improvvisamente messi in testa di suonare viking/black. E ancora ritorna lo spettro degli Opeth nei cori, che si dissolve nello sludge e anche in un certo modo di intendere il death metal, quello dei Morbid Angel in primis.


Diventa ormai chiaro che definire in modo più o meno lineare quale sia il genere musicale suonato dai Cormorant sia compito alquanto arduo, per non dire impossibile. Tanto più che nella successiva The Pythia viene sviluppato ancora di più quello sludge tipico di band come Rwake e Eyes of Fire (per non dire EyeHateGod), ma solo per cedere volentieri alle tentazioni del melodic death tecnico, prima di sfociare in un finale melodico dal retrogusto che sa persino di alternative rock.
Broken Circle inganna con la sua voglia di fare atmosfera a suon di riff progressive rock un po’ settantiani, che in realtà sono solo un pretesto per introdurre una nuova sfuriata in doppia cassa. Degno di nota è poi il cantato, che se da un lato si concede al tipico scream black metal, dall’altro strizza l’occhio all’inconfondibile latrato di Jacob Bannon dei Converge. E continua così l’alternanza infinita tra quiete e tempesta, tra melodie avvolgenti, basso pulsante e riffoni distruttivi.
Anche Mark The Trail si muove su coordinate simili, sempre in bilico tra death, sludge e gusto progressive, prima di chiudersi in un finale epico e molto bathoriano che ricorda certe band più vicine al viking/folk che non alle altre influenze normalmente messe in moto dal combo. Forse è proprio questa la caratteristica più straordinaria di Earth Diver, ovvero quella di mettere quintali di carne al fuoco, cucinarli ben bene e poi servirli con una competenza tale che non si nota più la differenza tra le diverse influenze, ma tutto sembra frutto di un’unica, solida e compatta proposta musicale, figlia solo dell’ispirazione e non del condizionamento dato da tanti generi diversi e da decenni di metal estremo.


A completare il quadro, giunge l’austera melodia di A Sovereign Act, che si costruisce su un post metal oscuro come solo i primi Neurosis sapevano essere, per destreggiarsi anch’essa su territori esattamente a metà strada tra lo sludge e il black metal, che è quasi come se i Rwake, i Minsk e i Watain abbiano deciso di mettersi d’accordo e comporre un pezzo tutti insieme.
Difficile quindi riassumere a parole una valanga così vasta di influenze come quella che travolge lo stile dei Cormorant. Ma che si tratti di prog, death, black, gothic, sludge, post o qualsivoglia altro sottogenere, la band di San Francisco è innanzitutto una grandiosa creatura di metal estremo finalmente originale e autentico, che dona nuova freschezza a una scena ormai stantia e da troppo tempo legata alla sua vecchia gloria. Che poi Earth Diver non sia un capolavoro, su questo siamo tutti d’accordo, tuttavia potremmo anche azzardare che ci è andato vicino. Se in futuro i nostri saranno in grado di spiccare il volo, liberarsi dalla zavorra dei riff più ripetitivi e concentrarsi su quelli vincenti, magari allungandoli in canzoni potate a dovere, le probabilità che venga servito il nuovo chef-d’oeuvre del metallo pe(n)sante sono davvero molto alte. Per adesso, accontentatevi di chiudere gli occhi e di lasciarvi abbandonare sulle ali del Cormorano. Non ve ne pentirete. 

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