Voto: 
8.5 / 10
Autore: 
Paolo Bellipanni
Genere: 
Etichetta: 
Sub Pop
Anno: 
1991
Line-Up: 

- Stephen Immerwhar - Voce, Basso
- John Engle - Chitarra
- Chris Brokaw - Batteria

Tracklist: 

1. D
2. Gravel Bed
3. Pickup Song
4. New Year's
5. Second Chance
6. Cave-In
7. Cigarette Machine
8. PEA

Codeine

Frigid Stars

"Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma"

Antoine Lavoisier aveva ragione. E non solo per quanto riguardava la materia e gli atomi, perchè anche la musica, in maniera ancora più evidente rispetto alle altre forme d'arte, rientra totalmente in quest'universalia del pensiero occidentale.
Perchè questa è la strada, l'unica accettabile, che il processo musicale moderno ha dovuto seguire: un genere non nasce da solo, improvvisamente, ma cresce in maniera progressiva presentandosi come lento e naturale sviluppo di qualcosa che esisteva precedentemente, come se ogni stile fosse una cellula indipendente che varia la sua forma infilandosi tra le maglie di un organismo sempre diverso e in continua mutazione.
Come nel caso del post rock, ovvero una delle frange stilistiche che presenta nella maniera più limpida possibile ciò che è stato appena postulato. Di conseguenza, per parlare di post rock e quindi di tutte le sue sfumature che ogni gruppo ha contribuito a creare, è necessario addentrarsi in ciò che l'ha preceduto e in quel calderone di stili appena abbozzati e di tendenze nuove e sperimentali concentratesi tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90.

Come comunemente accordato dalla critica 'specializzata', la nascita del genere viene rimandata a tre dischi in particolare, ovvero il capolavoro Spiderland (1991) targato dagli americani Slint, Hex (1994) dei britannici Bark Psychosis e Spirit Of Eden (1988) dei connazionali Talk Talk: 2-1 per la Gran Bretagna, fino ad ora, perchè gli Stati Uniti saliranno presto di nuovo alla ribalta. Il fatto è che spesso, quando si parla degli antenati, dei pionieri e dei primi sperimentatori del genere si tende - convinti che bastino quei tre gruppi appena nominati per delineare la (prei)storia del post rock - a stendere un velo di indifferenza su un'altra grande, frastagliata e importantissima scena musicale, assolutamente imprescindibile per gli esiti di un certo rock sperimentale avviatosi dalla metà degli anni '90 in poi. Sto parlando della scena di Louisville, il cui nome troppe volte ingiustamente coincide solo con gli Slint, e di quella di Chicago, arrivata con leggero ritardo rispetto alla sorellastra del Kentucky ma altrettanto, se non maggiormente seminale per gli esiti del post rock, basti pensare ad uno dei massimi gioielli del genere, Millions Now Living Will Never Die composto dai Tortoise di John McEntire nel 1996.

Della scena di Chicago facevano parte, o meglio, ne erano gli alfieri, i Codeine (dalle cui ceneri nacquero in seguito i June of '44), padrini di quella tendenza che all'epoca venne chiamata slow core: il rock che rallenta, che viene sviscerato, che viene estirpato dai suoi contesti più classici e reinterpretato con l'interiorità sofferente dell'artista appena uscito dal malessere degli anni '80. I Codeine rappresentarono al meglio questo disagio e lo racchiusero nelle nove canzoni del loro emblematico capolavoro Frigid Stars, anno 1991. Influenzati tanto dalle dilatazioni strumentali dei Talk Talk quanto dal noise più sofferto ed atmosferico, la band di Chicago inventò un nuovo modo di fare musica, riducendo ogni componente alla sua essenza più scarna ed essenziale, rallentando quell'assetto ritmico che negli stessi anni veniva 'velocizzato' dal nichilismo grunge, movimento contro cui il rock di Chicago si scagliò stilisticamente e concettualmente.
Niente più litanie post-industriali contro la società moderna (No Wave docet) o inquietanti inni sotterranei alla Swans; i Codeine delineano al contrario quelli che saranno alcuni tra i tratti principali dell'artista anni '90, ovvero la chiusura emotiva, la riflessione esistenziale profonda ma non iconoclasta, il dolore visto umanamente e senza la sua componente metafisico-filosofica tanto cara al decennio precedente. Un atteggiamento che, abbinato alla portata sperimentale del gruppo, influenzerà tutto il rock lento (e non solo) a partire dai Low fino ai Red House Painters, che si distingueranno comunque per uno stile molto meno sperimentale.

Il sound dei Codeine è quasi interamente raccolto nella decadente silhouette del bassista-cantante Stephen Immerwhar e nella chitarra triste e graffiante di John Engle, menti compositive del gruppo nonchè poeti dell'essenziale, fruitori dell'emozione profonda nel contesto dell'immediatezza tecnica sebbene quest'ultima si affianchi evidentemente alla loro attitudine distorta e d'avanguardia. Le armonie di Frigid Stars sono spesso ipnotizzanti (il retrogusto psichedelico dell'opener D e quello shoegaze di Old Things) nonchè colme di una malinconia ora soffocante, ora leggera e riflessiva, capace di farsi trascinare tanto dall'inquietudine metropolitana quanto da una leggerezza d'animo comunque condita con un costante pizzico di amarezza, come dimostra la conclusiva PEA, abbandonata al suo lento incedere e alle sue note sgraziate ma cariche di poesia: "When I see the sun I hope it shines on me, and gives me everything to be one mile high".
Frigid Stars
brilla non solo per la bellezza delle sue trovate melodiche ma per la costanza e la coerenza su cui si basa, perchè tutte le nove canzoni che lo compongono sono gioielli, spesso vecchi, sporchi e simili a ferri arruginiti, ma pur sempre gioielli, unici nella loro specie: ne è esempio l'atmosfera claustrofobica e disturbante di Cigarette Machine, gli arpeggi toccanti e le fitte distortioni della terza Pickup Song, o ancora le schitarrate 'anarchiche' urlate da Engle in Gravel Bad. Ma nonostante questo la parte migliore del disco, quella che travolge davvero accapponando pelle, si concentra nei tre brani centrali, i più shockanti, i più intensi, i più semplicemente commoventi: a partire dal mood malinconico e fortemente nostalgico della quarta New Year's, fragile e terribilmente emozionante, per proseguire poi con le melodie dolorose e riflessive di Cave-In e infine con il vero capolavoro dell'album, Second Chance, un rituale underground sorretto da possenti flussi di distorsioni noise e da un rumorismo straziante che fa raggrinzire il cuore mentre l'atmosfera della canzone, grezza e piena di disperazione, si chiude sempre di più, fino a toglierci il respiro.

Questo è Frigid Stars e questi sono i Codeine, che si ripeteranno, purtroppo, solamente tre anni dopo (1994) con l'altro grande lavoro White Birch (senza il batterista Chris Brokaw andato ai Come sostituito da Doug Scharin), che si presenterà come una sorta di esasperazione del sound di Frigid Stars, grazie alle sue linee melodiche ancora più alienanti, ai suoi ritmi ancora più dilatati, ai suoi arrangiamenti sempre più essenziali: l'ultima testimonianza di uno dei gruppi più belli, emozionanti, peculiari e seminali degli anni '90. Ma a prescindere dall'importanza storica che ha assunto man mano col tempo, Frigid Stars è un disco unico, fatto di decadenti affreschi sonori violentemente estirpati da di chi li ha composti: non si tratta di geni nè di nerd cervelloni o di sentimentalisti falso-romantici, perchè se il sound di quest'album suona così emotivamente forte, vivo, disturbante e particolare, non è perchè la mente razionale è stata spremuta fino all'impossibile per eseguire azioni telecomandate, ma semplicemente perchè queste sono le leggi dettate dal cuore, perchè sono i tumulti provenienti dalla sua essenza più inquieta, perchè non esiste cosa più forte e incontrollabile di quell'enorme, pulsante e dannatamente fragile bagliore rosso.


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