Voto: 
9.0 / 10
Autore: 
Francesco Tognozzi
Etichetta: 
Touch & Go
Anno: 
1984
Line-Up: 

 - Gibby Haynes - Voce, Sassofono
 - Paul Leary - Chitarra, Voce su "Mexican Caravan" e "Gary Floyd"
 - Bill Jolly - Basso
 - King Coffey - Batteria
 - Teresa Nervosa - Batteria

Tracklist: 


1. Concubine – 2:27
2. Eye of the Chicken – 1:36
3. Dum Dum – 3:47
4. Woly Boly – 2:45
5. Negro Observer – 3:39
6. Butthole Surfer – 3:02
7. Lady Sniff – 3:45
8. Cherub – 6:22
9. Mexican Caravan – 2:46
10. Cowboy Bob – 2:55
11. Gary Floyd – 1:56

Butthole Surfers

Psychic... Powerless... Another Man's Sac

Correva l'anno 1984 e le micce accese nella seconda metà dei Settanta si stavano ormai spegnendo ineluttabilmente. Nella patria Inghilterra il punk era già solo un lontano ricordo, che nel frattempo aveva generato una serie incommensurabile di figli più o meno legittimi; dall'altra parte dell'oceano mancava un anno alla tragica morte di Dennes Dale 'D' Boon, voce, chitarra e cofondatore dei mai dimenticati Minutemen: triste metafora della fine di una generazione, quella hardcore, che da tempo ormai era incapace di rigenerarsi. Con Minor Threat e Bad Brains fuori causa, tra Dead Kennedys disorientati e Black Flag alle prese con un improbabile connubio tra hard rock e hc punk, l'ultimo fuoco di una delle più violente stagioni musicali americane era stato quello Zen Arcade che a tutt'oggi è osannato come uno dei più grandi LP di sempre, firmato Hüsker Dü.
Al giro di boa degli '80, comunque, non era più solo velata la sensazione che fosse in atto una crisi d'identità generale senza precedenti. Nell'anno del Live Aid, del Virgin Tour di Madonna, di We Are the World e degli a-Ha, quella che si respirava era aria di declino. Una masnada di nerd radicali (e drug-addicted) dall'aria poco rassicurante, con ragione sociale Butthole Surfers - vi riservo la traduzione di questo epiteto non proprio politically correct - fu il male necessario.

È verso la fine del decennio precedente che Gibson Haynes e Paul Leary si erano conosciuti all'università di San Antonio, Texas, per dare vita di lì a poco ad un primo embrione della band. I due fondatori e, rispettivamente, voce e chitarra del complesso, incontrarono non poche difficoltà nel tentativo di adottare una sezione ritmica in pianta stabile, quindi una serie di bassisti e percussionisti si avvicendarono inizialmente nelle fila della formazione. Rimbalzando tra art gallery e locali polverosi in cerca di un contratto, i nostri trovarono fortuna (non per caso) a San Francisco, alla corte di Jello Biafra; reclutati basso (Billy Jolly) e batterista (Jeffrey 'King' Coffey), pubblicarono così nel 1983 il loro primo, omonimo EP sotto l'egida dell'Alternative Tentacles, etichetta indipendente fondata appunto da Biafra e dal suo amico e collega nei Dead Kennedys, East Bay Ray. Sette tracce folgoranti all'insegna di un hardcore esasperato e non scevro di pericolose contaminazioni, psichedelia su tutte: il disco ebbe l'impatto di un metorite sulla scena musicale della West Coast e da subito i Butthole Surfers divennero sinonimo di oscenità e provocazione, modi che si evincevano in maniera ben poco dissimulata dalle scelte iconografiche e tematiche della band.
Subito dopo la prima uscita discografica si aggregò alla comitiva Teresa 'Nervosa' Taylor come secondo percussionista e i live act iniziarono a farsi sempre più brutali e suggestivi. Veri e propri sabba al tempo dell'eroina, gli show prevedevano i due drummers sul retro della scena, rigorosamente in piedi e affiancati, alle prese con un set invidiabile di piatti e tamburi; Leary a lanciare sferragliate dalla sua chitarra acida, sull'orlo delle convulsioni; Gibby Haynes mina vagante su e giù per il palco, intento a pronunciare zozzerie di ogni genere da un megafono quando non da un corno di bue (!).
Viste le premesse, non è difficile capire perché il primo long-playing della band segnò una linea di confine sul territorio underground statunitense e un punto di non ritorno nella cultura musicale in toto.

Psychic...Powerless...Another Man's Sac fu registrato nel 1984 (era frattanto subentrato un nuovo, effimero bassista, Mark Kramer) e fece la sua comparsa sugli scaffali solo all'inizio dell'anno successivo, in seguito a tribolate vicende legate ad esigenze distributive, che nel frattempo avevano fatto accasare Haynes e soci alla Touch & Go Records di Chicago. L'ellepì d'esordio si rivelò una netta virata verso la psichedelia, in un'amalgama già esplosiva di elementi apparentemente inconciliabili tra loro: la new wave robotica dei Devo, lo psychobilly dei The Cramps, la surf music e il rock'n'roll, l'hardcore punk di matrice californiana, l'hard rock mefistofelico dei primi Black Sabbath, il tutto passato al setaccio di un'ideologia Freak Out! figlia diretta dei santoni Zappa-Beefheart.
Nella messinscena dei Butthole Surfers non c'è posto per la ratio: ogni elemento - a partire dal linguaggio del corpo umano - viene utilizzato per fare scempio di quella grande menzogna che si chiama buon senso, in un percorso di ordinaria follia. Le canzoni allora non sono più degne d'esser definite tali, ma si trasformano in invettive fulminanti che difficilmente superano i tre minuti, tempo di cottura più che sufficiente per sconquassare anche le orecchie dell'ascoltatore meglio disposto al caos. Il drumming spasmodico della coppia di 'picchiatori' Coffey/Taylor, l'uso sfrontato del vocoder che deumanizza le parole di Haynes, la poca parsimonia con cui Leary sfrutta l'effettistica della sua chitarra solista, il frequente intervento di fiati in preda ad allucinogeni, provvedono a fare di quest'opera un monumento all'anarchia espressiva.

Nemmeno l'agio di posare la testina sul disco e si è travolti da una ferocia inaudita, l'incipit non potrebbe essere migliore: Concubine è un climax di flagellazioni acustiche, una messa nera per voce modulata in cui Gibby Haynes dà subito sfoggio del suo sistematico turpiloquio; sullo stessa linea anche Eye of the Chicken, velocissima e fragorosa sfuriata in tono metallico, tripudio delle distorsioni cosmiche a cui Paul Leary, autentico guitar hero, ci abituerà molto presto. L'intro di Dum Dum (sì, il titolo è onomatopeico) è uno dei momenti clou dell'album: linea di basso àtona presa in prestito da One of These Days dei Pink Floyd e innesto incalzante delle due batterie all'unisono, quindi una chitarra sibilante a dare scosse elettriche a questa danza tribale dai contorni minacciosi. Il leader della band svela qui per la prima volta la sua vera voce, ma non per questo si sveste della sua barbarie verbale e intona un grottesco scioglilingua che parla di alienazione con posa demenziale ("You want the people / To be the people / But they don't need you / You need the people / To show the facts / But they just bleed you"). Woly Boly riprende le fila del discorso con uno sbilenco voodobilly aggiornato all'era meccanica, che procede caracollando sotto i colpi implacabili dei due percussionisti; Negro Observer è uno dei capolavori assoluti del disco: si forgia di un riff bieco (ma stavolta orecchiabile) che dipinge un'atmosfera vagamente pop, inquinata però dallo sghignazzare di Haynes e da un sax abulico e irriverente che riportano i Surfisti nella loro dimensione propria. Quindi un raro caso di brano omonimo, con aneddoto annesso: fu proprio Butthole Surfer a dare il nome alla band in seguito ad un equivoco da parte del presentatore di uno dei primissimi live, il quale dovendo annunciare coloro che erano prossimi a salire sul palco, confuse maldestramente il nome del gruppo con il titolo della prima traccia in scaletta. Il pezzo non è che l'occasione per mettere in scena un nuovo atto al teatro dell'idiozia, un hardcore sguaiato e non proprio ortodosso che si trascina oltre la lunghezza consueta al genere con un finale costruito su una serie di stop e ripartenze furibonde. E se fin qui si è descritto un cammino fatto di oltraggi e depravazione, ecco che gli antieroi per eccellenza dell'American Dream calpestano definitivamente il limite: tappi per le orecchie ai più deboli di stomaco e via con lo sgangherato funk omicida di Lady Sniff, che si fa battere il tempo da sputi, rutti, rigurgiti e flatulenze, registrando un'apice di inarrivabile insolenza nella storia della musica. Cherub invece si prende quasi sul serio e penetra in maniera risoluta nel territorio della psichedelia: il pezzo più lungo dell'intero lotto (oltre i 6 minuti) apre con uno stridìo sinistro che lascia subito il posto ad un basso cupo e un drumming ipnotico, e quindi alla voce di Haynes all'altoparlante che sembra prendere forma dal niente; poi sirene, vortici, bagliori, in un crescendo di tensione lisergico e altamente suggestivo a un velenoso crocevia tra lo space rock degli Hawkwind e l'industrial corrosivo dei Chrome. Un giro di basso da tachicardia introduce Mexican Caravan, il capitolo esotico del disco - presenza d'obbligo nel repertorio di un gruppo cresciuto respirando l'aria del deserto; si tratta di una dirompente cavalcata che affonda le sue radici nel rock'n'roll, ma con una padronanza che solo i Butthole Surfers hanno nel piegarsi a patti con certi cliché del passato. Quel che ne viene fuori è una miscela caustica che vede le urla di un Gibby Haynes letteralmente da ricovero, inserirsi tra le schegge che la chitarra di Paul Leary - qui nel suo momento di grazia culminante - dissemina per tutto il tragitto di questo folle carrozzone di sbandati. Per rincarare ulteriormente la dose arriva quasi in chiusura il vero masterpiece dell'album, Cowboy Bob, che incede con una ritmica martellante e narcotica affiancata da un sax tracotante, mentre il cantante-androide declama un inno all'autodistruzione passato al vocoder: "I woke up this morning / on the wrong side of bed / I had a knife in my back / and I put it back in / my god I was dead". L'epilogo è affidato a Gary Floyd, un mite siparietto in chiave country da Minutemen in licenza, che stempera i toni e congeda con un sospiro di sollievo da un calvario di detonazioni sonore lungo trentacinque minuti.

Quello che Psychic...Powerless... rappresenta è uno squarcio di furore cieco, un boato nel bel mezzo di una decade, musicalmente parlando, troppe volte ridotta al suo stereotipo di melenso interludio tra la rivoluzione dei fine-Settanta e la maturità acquisita dell'ultimo ventennio. Tra i ricordi sbiaditi di atmosfere ovattate e personaggi di un'estetica terribilmente kitsch, c'è anche la storia di chi, ridendosene del buon costume, diede vita a una musica per atti osceni, un'odissea di esplorazioni cacofoniche sotto droghe pesanti che costituì il delitto premeditato più insano mai dato alle stampe. Pareva impossibile che qualcuno potesse elevare la demenza a filosofia, ma i Butthole Surfers ebbero un colpo di genio: malcelare sotto un attacco frontale di un impeto devastante, suonato magistralmente, quella che era in realtà un'immane presa per il culo.
E riuscirono nell'impresa.


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