Voto: 
6.0 / 10
Autore: 
Stefano Puccio
Etichetta: 
Jagjaguwar
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Stephen McBean - voce e chitarra
- Amber Webber - voce, tastiera e chitarra
- Matthew Camirand - basso
- Jeremy Schmidt - tastiera
- Joshua Wells - batteria e percussioni

Tracklist: 

1. The Hair Song
2. Old Fangs
3. Radiant Hearts
4. Rollercoaster
5. Let Spirits Ride
6. Buried By The Blues
7. The Way To Gone
8. Wilderness Heart
9. The Space Of Your Mind
10. Sadie

Black Mountain

Wilderness Heart

Capita in taluni casi di sentir dire che il terzo album per una band rappresenta sovente qualcosa in più di un’ennesima pubblicazione discografica, una sorta di “prova del nove” addirittura, in grado di manifestarne la definitiva consacrazione o –di contro– spegnere quello che era probabilmente un semplice “fuoco di paglia”; ora, se assumessimo a regola questa diffusa consuetudine potremmo dire che i Black Mountain hanno –in maniera abbastanza drastica– fallito la suddetta “prova”.
I canadesi erano stati difatti nel 2008 autori di un interessante esperimento intitolato In the Future attraverso il quale, riportando a galla i canoni stilistici di alcune importanti band a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, avevano provato –ed in parte riuscendoci– a fondere tali stili e riproporli in un formato il più possibile personale senza risultare in questo modo anacronistici (com’è facile che accada in casi simili).

Wilderness Heart, che teoricamente sarebbe potuta essere un evoluzione di tale esperimento privata dei precedenti “difetti” ―su tutti, quello di non aver osato a tutto tondo con la personalità ― risulta invece una vera e propria involuzione qualitativa che propone soluzioni ormai scontate e dà quindi vita ad un’opera alquanto derivativa e poco incisiva che mette maggiormente in mostra il lato main-stream della band.

Le sostanziali differenze tra questo ed il precedente lavoro sono rintracciabili soprattutto nell’abbandono di quell’attitudine progressiva e visionaria che faceva da collante per le innumerevoli “citazioni” (da un lato a band come Black Sabbath e Jefferson Airplane; dall’altro, Pink Floyd e Doors) e che, parlando sia dal punto di vista stilistico che emotivo, rendeva il tutto più compatto, consentendo così alla band di lavorare liberamente con l’inserimento di idee proprie e di riuscire ad amalgamare in modo sapiente ogni spunto ―ne sono un esempio i sedici minuti di Bright Lights. Ciò che traspare invece da Wilderness Heart è un’evidente frammentazione in tal senso; ogni brano (ormai ridotto a semplice “canzone”) appare slegato dal precedente: Si alternano ad episodi unicamente folk-psichedelici altri più hard rock-oriented, dando come risultato un susseguirsi di tributi a destra e a manca che mancano però di una reale ispirazione di fondo. Rimane forse parzialmente invariata la capacità espressiva dei due singer, Stephen McBean ed Amber Webber che però a tratti cedono comunque a melodie piuttosto facili, e catchy.

L’iniziale The Hair Song strizza l’occhio ad un sound southern rock, con la contrapposizione di una chitarra acustica ed una elettrica accompagnate da una tastiera; esse alternano momenti acidi ad altri maggiormente esplosivi, nei quali le due voci si contendono la scena. Il tono vocale di McBean ricorda quello di un giovane Bob Dylan.
A seguire, Old Fangs ricalca invece coordinate Deep Purpleiane su ritmi meno elevati della precedente, mostrando le evoluzioni di un sinuoso synth; dopo queste due sferzate entra in scena l’interludio acustico di Radiant Hearts, nel quale spicca l’utilizzo di un mellotron a condire le malinconiche linee vocali.
In Roller Coaster è lampante l’ispirazione Sabbathiana: Fanno infatti da protagonisti i riff  “alla Iommi”, ammorbiditi però da un tappeto tastieristico –che rimanda addirittura ai Doors– e dal rincorrersi e contrapporsi delle due voci, soprattutto da quella femminile.
Anche Let Spirits Ride è ancorata al sound dei Black Sabbath, questa volta però a quelli più selvaggi di Paranoid, difatti la sezione ritmica è dirompete e non da attimi di tregua, mentre ricompare il sintetizzatore a conferire un sapore psichedelico. Con Buried By the Blues si ritorna ad un folk, che rimanda però ai Pink Floyd di Animals, e che scorre via abbastanza anonimo per giungere così a The Way to Gone, altro episodio folk caratterizzato però dalla presenza di una ruvida chitarra che irrompe durante i chours rendendo il pezzo “acido”. Ancora il binomio Deep Purple–Black Sabbath per la successiva Wilderness Heart: Forse l’esempio principe dell’incapacità della band di liberarsi dai clichè risultando così più che mai derivativa. Il duo finale The Space of Your Mind e Sadie non riesce di certo a risollevare la qualità dell’album; si ritrovano nuovamente elementi Pink Floydiani che vanno a costituire dei momenti psychich-folk  caratterizzati da un piglio malinconico e nostalgico entrambi però, senza lode ne infamia.

In definitiva, questo Wilderness Heart deluderà tutti coloro avevano riposto speranze nei Black Mountain auspicandosi da parte loro una maturazione che li avrebbe portati a liberarsi dalle varie “contaminatio” che pervadevano le precedenti uscite. Non deluderà invece chi, senza particolari pretese e magari con un pizzico di nostalgia, cerca la semplice riproposizione di un passato glorioso in salsa moderna.

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