Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
A. Giulio Magliulo
Etichetta: 
Stanton Park/Helter Skelter
Anno: 
1991
Line-Up: 

Jim Janota – Drums

Crispin Wood – Guitar/Vocals

Jon Hardy – Bass/Vocals

Tracklist: 

"Amsterdamned"

"The Mole"

"September"

"A Pile of Money"

"Covered Up"

"Who's Laughing Now"

"Naked Lady"

"I Smell a Rat"

"Movin' to the Country"

"Barb Jones"

"L. Frank Baum"

"Matter of Time"

"Hey Maloney"

"The Shower"

"Refrigerator Song"

"In My Headphones"

"Meanwhile"

"Maloney's Trip"

"The Grand Mythooza"

"Dr. Lb."

"Frilly Underwear"

The Bags

Night of the Corn People

The Bags, da non confondere con l’omonima formazione punk settantasettina di Los Angeles, son stati un formidabile power trio che sul finire degli anni ottanta agitò la scena bostoniana.

Forti del primo album pubblicato nel 1987, Rock Starve, ben accolto dalla critica grazie alle indubbie capacità della band, dopo qualche emissione sotto falso nome Swamp Oaf tanto per confondere le acque, daranno alla luce nel 1991 il loro terzo album per la label Stanton Park, The Night Of The Corn People.  L’album sarà poi pubblicato poco tempo dopo in una versione più estesa in doppio vinile colorato dalla italiana Helter Skelter.

Il momento storico in cui operano The Bags è molto fertile per la scena underground; il grunge ancora non domina il mondo, il metal comincia a scoprire il fianco molle nei suoi aspetti più risibili ed infantili ed anche il punk è ormai da tempo stato soppiantato da una ben più solida verità hardcore.

Contemporaneamente ci sono forti pulsioni revivaliste a spingere già da qualche anno: il garage e certa psichedelia pesante invadono sia l’Europa che l’America.

E’ in questo scenario che vanno compresi i Bags, abili musicisti dal punto di vista tecnico al servizio della dissacrazione del rock and roll. Il formato in cui essi riescono nel loro intento è quello della rock-opera, del concept, delle mini-suites, elementi che solo i folli avrebbero preso in considerazione in quel tempo.

Probabilmente The Bags folli lo erano davvero poiché quelle composizioni, al di là della forma, erano un compendio che andava poi a negare nella sua sostanza la pomposità che solo in apparenza propugnavano.

La buffonesca veste simil-prog serviva insomma a nascondere i rocciosi attributi hard rock, l’immediatezza del  garage del tempo, il pop riflesso nelle esperienze più acide che la psichedelia aveva insegnato e le vertiginose e brutali accelerazioni hardcore punk: strampalate digressioni zappiane al servizio di un grande ‘fuck off’ al sistema del rock di quegli anni. Eppure i Bags il rock lo amavano tanto e lo conoscevano ancor di più.

Essi avrebbero saputo suonare ‘seriamente’ qualsiasi sottogenere del rock ma non volevano essere ingabbiati in alcun movimento, non volevano esser parte di una setta e lo strumento con cui hanno deciso di suggellare la loro opera è stata una grassa ed articolata forma di ironia. Un’ironia che si serviva però della perizia, della potenza e della tecnica. Per questo non sarà strano che una band così profondamente underground nelle intenzioni e nell’animo sarà poi successivamente riconosciuta e consacrata più da un ristretto pubblico di ascoltatori maturi avvezzi alle cose ‘tecniche’ che non da un generico pubblico giovanile, ‘indie’, usa e getta.

Bella e strana creatura The Bags, surreali da far invidia a Captain Beefheart, dalla notevole ispirazione letteraria (L.Frank Baum, The Wizard Of Oz), dal falsetto acuto molti anni prima dei Darkness, dalle schizofreniche sfuriate che affiorano inaspettate dopo momenti di placida bucolicità, dalle chitarre iperfuzzate, iperpompate, ipergasate eppure sempre composte sul grande arazzo di fondo i cui singoli  frammenti vanno a collocarsi.

Ogni eccesso in quest’album fatto proprio di eccessi e delirio non è mai inutilmente fine a sé stesso. I suoni sono sempre pulitissimi, sebbene anelino al caos. L’immaginario a tratti freak e a tratti glam, da finto-horror e da b-movie sancisce anche il suo legame con le varie teen culture punk-garage oriented ma è sempre riflesso da una psichedelia hard fuori di testa nel suo movente letterario, se così si può dire. L’ibrido è eccitante per quanto straniante. 

Tra fusioni impossibili di Ramones e Jethro Tull, rocciosi hard rock tellurici dal passo pesante alla Blue Cheer e grondanti acido lisergico negli assoli, barocche ouverture hard-prog culminanti in rocambolesche cadute  sui Misfits più disinibiti, tra Led Zeppelin meno alcool ed eroina e più lsd e bizzarrie da orchi del riff, si consuma uno dei dischi più avventurosi e sconosciuti dell’undergorund U.S.A. dei primi ’90. Mai soffocanti, sempre disposti a grandi aperture melodiche di ampio respiro persino negli episodi più serrati, l’unico riconoscimento che verrà loro tributato – ma di grande valore - sarà da parte dei Sebadoh che nel loro Harmacy faranno una cover molto vicina all’originale di I Smell A Rat.

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