Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Etichetta: 
Universal
Anno: 
2002
Line-Up: 

- Craig Walker - voce, chitarre
- Darius Keeler - sintetizzatore, tastiere, pianoforte, basso, programmazione
- Danny Griffiths - sintetizzatore, tastiere, pianoforte, percussioni, chitarre

Guests:
- Jane Wall - voce
- Maria Q - voce
- Pete Barraclough - produzione, chitarre
- Dominic Brown - chitarre
- Dominic Brown - chitarre
- Lee Pomeroy - basso
- Steve Emney - batteria
- Steve Barnard - batteria
- Steve "Keys" Watts - organo, pianoforte
- Alan Glen - armonica
- Tom Brazelle - armonica
- Anita Hill - triangolo
- Carl Holt - tromba
- Annelise Truss - viola, violino

Tracklist: 

1. Again
2. Numb
3. Neon
4. Goodbye
5. Now and Then
6. Seamless
7. Finding It So Hard
8. Fool
9. Hate
10. Need

Archive

You All Look the Same to Me

Ricordate quando, parlando di Take My Head, il secondo album degli Archive, definimmo "metamorfosi" la parola più vicina a ciò che il gruppo londinese fece in quell'occasione? Bene, preparatevi con il loro terzo album You All Look the Same to Me a rispolverare lo stesso lemma.

Dopo aver nel frattempo salutato la cantante Suzanne Wooder per far posto al nuovo acquisto Craig Walker, ex-leader del complesso pop/rock Power of Dreams, gli Archive imboccano infatti un sentiero di un moderno rock progressivo morbido e meditato, condito dalle influenze personali di ciascuno dei membri che conferiscono al lavoro un ricco e variopinto background musicale che spazia fra ritmiche di stamo trip hop, psichedelia rielaborata in chiave moderna, elementi acustici alternati a spruzzi elettronici e tappeti d'atmosfere maggiormente ambient, arrangiamenti che navigano da un riallacciamento ai Pink Floyd alla scena odierna, pop/rock alternativo di stampo radioheadiano, crescendo d'intensità e batterie vellutate mutuati dal post-rock. Le composizioni mantengono tutta la classe del gruppo e navigano con scioltezza fra stratificazioni sonore, momenti più distorti e distensioni melodiche.
Il disco si rivela un personale anello di congiunzione fra gli anni '70 e i decenni '90 e 2000, dalle sonorità ricche e condito di un esistenzialismo tipicamente britannico mescolato ad una vena sentimentale più stemperata.
Darius Keeler e Danny Griffiths, le due menti che si celano dietro al gruppo, possono così in tutta franchezza essere considerati dei compositori eclettici se non camaleontici per la flessibilità con cui spaziano fra i generi da un disco all'altro, giungendo in questa loro terza fatica ad esaltare il loro lato più creativo ed originale dopo il dubbio risultato a metà del precedente lavoro.

L'iniziale Again è una suite di 16 minuti che inizia con una tromba che ricorda i Talk Talk a cui subito seguono morbidi arpeggi di chitarra, la mesta voce di Walker e tenui effetti di sottofondo che in breve si tramutano in eterei tappeti di tastiera ambient accompagnati da una triste armonica. Non passa molto tempo prima che l'effettistica e l'impianto ritmico facciano il loro ingresso scandendo con leggerezza lo scenario del brano che diviene quindi un caleidoscopio di sonorità intrecciate fra di loro in un unicum che scorre fra crescendo emotivi (soprattutto quello finale) e intermezzi atmosferici con continuità scorrevolissima - anche se un pochino allungata nella sezione centrale della traccia e in alcuni momenti sembrando un po' troppo dei Pink Floyd della metà degli anni '70 aggiornati alla scena musicale inglese del nuovo millennio. L'influenza del post rock è avvertibile maggiormente nei tipici climax posti a coronamento dello sviluppo sonoro e in alcuni interventi di drumming, mentre le radici trip hop del gruppo si avvertono nelle ritmiche più vicine al downtempo e nei passaggi dall'atmosfericità più moderna e relativamente urbana. Il tutto è intriso di un'emozionalità romantica rock/pop, spruzzi di psichedelia e rimescolamenti di chitarre acustiche ed elettriche.
La successiva Numb si fa guidare dal basso intermittente su cui si adagiano la batteria cadenzata e le linee vocali influenzate da Thom Yorke dei Radiohead. Successivamente le distorte chitarre elettriche irrompono costruendo un ripetuto muro sonoro cupo ma graffiante, per poi abbinarsi ai tappeti di tastiera e ai samplings.
Neon è un dolce viaggio spaziale fra tonalità pinkfloydiane, lievi spunti reggae, batteria in parte trip hop, strings che si ricollegano al debutto Londinium e crescendo d'emozionalità.
Goodbye gioca sul connubio fra la melodia da dolce ninnananna, i consueti tenui fondali di tastiera e la batteria filtrata, ma è po' prolissa e può risultare ripetitiva.
Now and Then è una breve, triste e soffusa esecuzione di pianoforte e voce femminile, una parentesi prima di Seamless che però a sua volta è un'introduzione ambient a Finding It So Hard, la seconda suite del disco. Una cupa progressione elettronica fra influenze dei VNV Nation filtrate attraverso l'ottica del gruppo, ritmiche ripetute di stampo acid house, tastiere ambient, bassi filtrati e campionati che sopraggiungono quando il brano si fa un'oscura visione futuristica e spaziale (grazie anche alla tastiera maggiormente lisergica e spettrale), chitarre che introducono un electro-rock schitarrato prima dei conclusivi synth acidi/ebm.
Dopo questi oltre quindici minuti inquietanti e alienanti, Fool si adagia su di un più tranquillo miscelamento di pop-rock, elettronica authecriana, trip hop, distensioni atmosferiche autunnali che riprendono qualcosa del debutto e vocalizzi pop. Non stupisce quanto i brani precedenti ed è anch'essa una canzone forse un pochetto ripetitiva, ma rimediano l'atmosfera densa e notturna del pezzo, arricchita da spunti sessantiani nelle fisarmoniche, nell'organo e in alcuni tocchi di chitarra leggermente psych-blues.
Hate è una canzone sentita ed evocativa, dove la musica malinconica e dolce contrasta nettamente con il testo, risentito e sfiduciato. Le linee vocali nostalgiche e vellutate, soprattutto nel ritornello emotivo, esaltano quest'opposizione conferendo un retrogusto di amarezza e sarcasmo al pezzo, nonostante questa vaga dicotomia sia un po' banalotta.
La conclusiva Need è infine un'esecuzione acustica come tante, priva di spessore e che non ha nulla da aggiungere.

Un disco unico per gli Archive, pur con qualche piccolo neo qua e là - ma nessuno è perfetto.
L'unico dubbio a questo punto è sulla personalità variabile e non fissata degli inglesi, visti i dischi slegati e lontani fra loro, che potrebbe disorientare chi è alla scoperta di determinate sonorità e di questo gruppo.
 

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