Voto: 
9.5 / 10
Autore: 
Iacopo Fonte
Genere: 
Etichetta: 
Prophecy Productions/Audioglob
Anno: 
2005
Line-Up: 

- Mick Moss – vocals, acoustic guitars
- Rachel Brewster – violins
- Stephen Hughes – bass guitar
- Chris Phillips – drums
- Sue Marshall – additional vocal


- Duncan Patterson - piano, acoustic guitar, bass guitar, keyboards
- Amelie Festa – vocals
- Mehdi Messouci - additional keyboards
- Barry Whyte - lead guitar
- Alex Mazarguil – djembe


Tracklist: 

1. Planetary Confinement
2. The Weight of the World
3. Line of Fire
4. Epitaph
5. Mr White
6. A Portrait of the Young Man as an Artist
7. Relapse
8. Legions
9. Eternity part 24

Antimatter

Planetary Confinement

Il disco più deprimente dell’anno. Così nel 2005 esce Planetary Confinement, terza fatica per gli inglesi/irlandesi Antimatter che regalano al mondo una perla di raffinatezza e malinconia. Bisogna innanzitutto sottolineare come la band abbia proceduto di pari passo fin dalla fine degli anni ’90 con gli in parte compatrioti Anathema. La loro affinità stilistica arriva addirittura fino alla medesima concezione della musica, tanto che gli amanti della band di Liverpool non possono non apprezzare anche questa band sorta dalla mente di Patterson, l’ex bassista della formazione Cavanagh, in collaborazione con Mick Moss (1998). Per quanto riguarda proprio la line-up infatti, anche Daniel e Jamie Cavanagh con il precedente Lights Out avevano lavorato al progetto Antimatter.

In questo quadro il combo presenta un full-lenght quasi completamente acustico della durata di quarantasette minuti, per un totale di nove track che si scandiscono simmetricamente. Dopo un primo intro infatti, Planetary Confinement, dai toni pacati e ragionati, le songs si succedono secondo l’alternanza vocale uomo-donna, Mick Moss-Amèlie Festa. A cominciare dalla penetrante voce del fondatore della band, The Weight of the World si snoda su enigmatici riff di chitarra altalenanti che si sciolgono poi sulle strazianti parole “I’m trying to scream but i can’t exhale”. L’andamento ritmico è scandito perfettamente dal vocal che esprime il dolore di un uomo in crisi interiore, per il mondo circostante (“Am I the Only one crushed by the weight of the World”). L’atmosfera creata dagli intrecci strumentali è avvolgente e portatrice di struggimento.

Dopo questa seconda track, Line of Fire esprime ancora maggiormente un misto di dolcezza per la splendida voce di Festa con un senso permanente di smarrimento tra pensieri, memorie, dolori. Il sound è cristallino a dopo poco più di un minuto si aggiunge un effetto in sottofondo di pioggia appena percepibile che trasmuta la canzone. E’ una canzone onirica, confortante, esemplare. Grazie al suo andamento trascinato, trattiene fino alla fine l’ascoltatore sulla linea del fuoco della depressione. Keyboard sfumano a un tratto voce e suoni e in grande stile chitarra e soprattutto drums, con un sessione ritmica bellissima, portano a termine la track.
Così i primi tre brani costituiscono un’unità basilare costituente l’album e già da sole convincono chi si trova a sentire l’opera.

Nella quarta song poi il mood si amplia con violini. Ovviamente la scelta strumentale incide sulle sensazioni trasmesse; la volontà di evadere dalla realtà permane Epitaph che esprime totalmente il desiderio di chiudersi in un posto dove trovare pace e serenità (“Paint me a room where i can dream”). Proseguendo abbiamo Mr White, cover dei Trouble molto ben interpretata, che vuole strappare di forza lacrime all’ascoltatore. I suoi toni narcotizzanti sono efficaci e creano un quadro molto elegante con una voce più sussurrata rispetto a Line of Fire.
Sono track preziose, luminose, che trasportano i fan sulle ali dei pensieri, dei sogni, dei ricordi.
Il massimo che poteva dare Moss lo da poi nella sesta track, A Portrait of the Young Man as an Artist. Le note si abbattono rarefatte ed eteree, mentre il vocal è eccelso, potente, completo, straziato. Sembra iniziare un monologo sulla sua vita (“Am i safe? Am i safe to be alone when all around are lost?”). La musica è fonte d’ispirazione; nella parte iniziale appare addirittura singhiozzante per il riffing di chitarra.

Relapse torna su toni tragici e malinconici con patterns di chitarra che riempiono di pensieri la mente dell’ascoltatore, il quale rimane inevitabilmente isolato e abbracciato dall’atmosfera che la cantante crea molto efficacemente. Le tastiere segnano svolte importanti con effetti soffocati, da metropoli, e rivelano il contributo più sperimentale di Duncan Patterson, rispetto al filone rigorosamente più acustico di Moss. L’ottava track, Legions, continua a spaziare nei meandri della disperazione umana e si differenzia dalle altre per una parte strumentale centrale notevolmente energica, come a voler simboleggiare l’incisività delle emozioni e delle sensazioni trasmesse.
Infine Eternity part 24 è un brano instrumental di impronta nettamente anathemiana, composta da Patterson probabilmente quando lavorava ancora con i fratelli Cavanagh. Song che si presenta colossale per il suo aspetto quasi ambient, catartico. Sottolinea un aspetto di purezza e chiude con una struttura ad anello l’album che, come era iniziato con la title-track strumentale, nello stesso modo abbandona in modo malinconico e misterioso l’ascoltatore.

E’ un insieme molto compatto che rispecchia in due blocchi di produzione, uno inglese diretto da Moss e l’altro irlandese da Patterson, le due personalità capobanda. Planetary Confinement rappresenta la perfezione per quanto riguarda l'introspezione. L’eleganza, la dolcezza, lo struggimento, improntano pesantemente tutto il full-length che merita di diritto l’ammirazione da tutta la scena musicale.

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