Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Stefano Pentassuglia
Etichetta: 
Autoproduzione
Anno: 
2014
Line-Up: 

Antonio Guerra - Voce

Aldo Panico - Chitarra 

Luca Miolla - Chitarra

Francesco Oresta - Basso

Rodolfo Russo - Batteria

Tracklist: 

1. Ballad of the Death

2. Last Journey

3. Scent of Blood

4. Black Light of Death

5. Rotten Conscience

6. Eternal Desire

7. A Jump in the Absolute

8. Something Dark Grows

Alldead

End Gates

“Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto.”
 
Tante, troppe le band convinte che l’originalità, o meglio la “personalità”, sia solo un optional. In un mondo come quello del metal estremo, ormai saturo di album sempre uguali e di musicisti convinti che bastino 4 riff scopiazzati qua e là per mettere in piedi qualcosa di decente, ascoltare un album che esca dai soliti canoni del thrash/death/black assomiglia sempre più al cercare un metallaro sobrio a un concerto dei Tankard. L’Italia non è da meno; per quanto il bel Paese abbia sfornato alcune tra le band più particolari e originali degli ultimi anni, nell’oceano dell’underground prettamente estremo sembra che sia dia sempre più interesse al “suonare thrash”, “suonare black”, ecc. e al rimanere ancorati alla propria zona di comfort, piuttosto che a suonare con la propria testa e al dare un contributo “personale” alla scena. 
Con le dovute eccezioni, naturalmente. Gli Alldead sono un’eccezione. 
 
Provenienti da una città come Taranto, diventata sempre più un emblema di sofferenza giovanile a causa di uno scenario urbano dilaniato dalle errate scelte industriali del passato, questi 4 ragazzi del profondo Sud non sembrano tanto interessati a mettere in mostra le loro influenze estreme quanto piuttosto a servirsene per spaccare più culi possibili in un’orgia di riff taglienti, assoli al vetriolo e influenze che non si fanno problemi a mescolare la furia degli Slayer con l’epicità degli Amon Amarth e la glacialità dei Dissection. Nati nel 2009 con il nome di Redrum, inizialmente una cover band fondata dal chitarrista Aldo Panico, dal bassista Francesco Oresta e dal batterista Rodolfo Russo (già con i thrasher tarantini Assaulter), il gruppo pugliese inizia la gavetta assemblando tutto ciò che anni di ascolti estremi hanno saputo offrire in un calderone di stili e di influenze diversi, fino all’arrivo del chitarrista solista Luca Miolla (anche lui nei già citati Assaulter) e del vocalist Antonio Guerra, abile nel passare da un registro estremo all’altro come se la band disponesse di più cantanti allo stesso momento. Il risultato è un debut album incazzato e con così tanta carne al fuoco da essere quasi prog nel suo concatenarsi di cambi di tempo repentini e di riff che spaziano dal thrash al death, dal black metal di scuola svedese al melodic death, dal viking al blackened death in una proposta unica, compatta e distruttiva. 
Una macabra citazione sul booklet da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” di Cesare Pavese introduce l’ascoltatore in un mood oscuro e tagliente, spezzato da chitarre che ballano tra mid tempo thrash e tesissime accelerazioni black; in questo senso Ballad of the Death si mostra come una chiara dichiarazione di intenti della band, sospesa com’è tra i due generi senza abbracciarne nessuno e senza lesinare cattiveria sonora. La produzione cristallina del chitarrista Luca Miolla non fa altro che far risaltare ancora di più la potenza dei riff e della voce di Guerra, perfettamente a suo agio in uno screaming che paga dazio ai Dissection dei tempi d’oro ma che sa destreggiarsi bene anche in altri contesti molto diversi tra loro. 
The Last Journey è una pausa di sollievo dalla tensione black metal di prima, un solido pezzone death/thrash che sembra scritto apposta per far scatenare il pogo nella bolgia sotto il palco, sostenuto da chitarre cavalcanti e ritmi cadenzati. Scent Of Blood, invece, parte con un attacco alla Slayer e prosegue con un fare sempre più sostenuto, tra assoli melodici e atmosfere sulfuree, quasi come se la band di Tom Araya abbia improvvisamente deciso di mettersi a suonare come i Dimmu Borgir
La concessione al thrash dei due pezzi precedenti viene però spezzata dalla funerea Black Light of Death, con un titolo che è un omaggio nemmeno troppo evidente a Legions of the Black Light dei Watain, una delle band black metal più ispirate degli ultimi anni nonché chiara fonte di ispirazione per il combo tarantino. L’influenza della band di Erik Danielsson si avverte tutta in questo brano, tra i più complessi dell’album, che inizia macabro e minaccioso per poi destreggiarsi tra riffoni schiacciasassi e accelerazioni che partono black metal e poi si evolvono in un blackened death figlio bastardo dei Behemoth; il tutto procede dritto verso un abisso finale costruito dalla feroce doppia cassa di Russo e dagli assoli avvolgenti di Miolla. La seguente Rotten Conscience inganna, spezzando l’atmosfera creata dal mesto arpeggio finale in un concatenarsi di riff in bilico tra thrash e death metal, con il diabolico screaming di Antonio Guerra che sembra quasi una dichiarazione d’amore a Shagrath, alternato a un profondo growl nei momenti più rallentati.
 
Quello che stupisce di più di questa band, al di là dell’effettiva qualità compositiva dei singoli riff e degli assoli, è la sua capacità di mescolarli in un insieme non convenzionale di influenze estreme, che suonano thrash, death e black come se si trattasse di uno stesso genere musicale. Questa “non convenzionalità” diventa peraltro ancora più evidente verso la fine del platter; anche se Eternal Desire sembra un brano ancora un po’ troppo di maniera, seppur convincente grazie ai ritmi galoppanti ed epici delle chitarre e soprattutto alla voce di Guerra, sospesa tra growl e screaming con una facilità disarmante, già la parte conclusiva di A Jump In The Absolute rende chiara la forza compositiva della band, con melodie fredde ed epiche che emergono dopo una battaglia di pogo, sudore e sangue. 
Emblema e dichiarazione di intenti della band è la conclusiva Something Dark Grows, brano che ispira a mandare indietro e premere più volte il tasto play per la sua straordinaria versatilità: dopo un inizio crudo e diretto, i riff diventano sempre più cadenzati e melodici, resi brutali da accelerazioni in doppia cassa, assoli al fulmicotone e una voce che, mescolando sapientemente growl profondo e screaming dilaniante, si sposa perfettamente ai ritmi del brano e sembra quasi tarata apposta con la velocità delle chitarre. Così, se il disco era iniziato in modo oscuro e brutale, la sua conclusione è invece affidata a soluzioni melodiche dal sapore quasi viking, con tanto di clean vocals corali e un riffing che dal black/death procede sempre più verso un epic/death figlio degli Amon Amarth più ispirati. 
 
End Gates è un debutto con i fiocchi, specialmente se si pensa che si tratta di un’autoproduzione; un assaggio di metal estremo nella sua accezione più pura del termine, un album non convenzionale che saprà come far felici tutti coloro che da una band non si aspettano il solito compitino ben confezionato ma prediligono personalità, originalità e passione nella propria musica. In sostanza, una band di cui il panorama metal italiano sentiva il bisogno; adesso speriamo solo che riescano a trovare un'etichetta che possa rendere giustizia alla loro personale concezione del metallo estremo.
 
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