Voto: 
4.5 / 10
Autore: 
Emanuele Pavia
Etichetta: 
Deathwish Inc.
Anno: 
2013
Line-Up: 

- George Clarke – Voce
- Kerry McCoy – Chitarre
- Daniel Tracy – Batteria

Guest:
- Stéphane "Neige" Paut - Voce (traccia 4)

Tracklist: 

1. Dream House
2. Irresistible
3. Sunbather
4. Please Remember
5. Vertigo
6. Windows
7. The Pecan Tree

Deafheaven

Sunbather

Nonostante il già esaltante responso critico ottenuto dalla pubblicazione di Roads to Judah (disco modesto, incastrato senza personalità nell'ormai sovraffolato panorama "blackgaze" senza riuscire a emergere o a proporre qualche idea che non fosse già stata riutilizzata decine di volte da decine di band diverse), era difficile prevedere che il secondo lavoro degli statunitensi Deafheaven (intitolato Sunbather e pubblicato sempre per la Deathwish Inc. l'11 giugno 2013) avrebbe ottenuto un'acclamazione critica quasi unanime dai maggiori portali rock in nemmeno un mese dalla data di uscita.

Acclamazione che pare ancor più assurda quando si presta effettivamente ascolto all'album. Ripartendo dal sound che i Deafheaven avevano esibito nel debutto (e specialmente nella opener Violet), Sunbather appare infatti come uno di quei tanti, troppi dischi costruiti su misura per coloro che degli sviluppi del black metal (anche quelli più raffinati e onirici degli ultimi anni) non conoscono nulla, sfoderando un imbarazzante arsenale di cliché post-rock (sulla scia di gruppi quali Explosions in the Sky, Godspeed You! Black Emperor, e le tonnellate di loro cloni), shoegaze (riciclando ovviamente My Bloody Valentine, Slowdive e Ride), ma anche, seppur in misura minore, emo (citando tanto gli storici Sunny Day Real Estate e Material quanto le più recenti correnti screamo di Touché Amoré), gotici (The Cure) e perfino indie pop (The Smiths), il tutto imbastito superficialmente secondo la lezione dei peggiori emuli del black metal "colto" di Agalloch, Wolves in the Throne Room e Alcest (gli unici nomi effettivamente legati al black metal che vengono in mente durante l'ascolto di Sunbather).
Non solo i nomi, ma anche il numero dei referenti è cruciale per il successo di un album del genere: per molti ascoltatori (specialmente tra l'audience indie, la più incline a cadere vittima dei fenomeni di hype del momento, e non per nulla quella che ha accolto più calorosamente Sunbather), un così vasto stuolo di influenze ostentate in modo tanto didascalico è visto come sinonimo di un'attitudine sperimentale, innovativa e di rottura rispetto alla scena black metal, quando in realtà è solo sintomatico della scarsa creatività dei musicisti e della loro incompetenza (culturale ed esecutiva) in ambito metal, da cui riprendono (anche in questo caso) solo gli stereotipi più rumorosi e nulla più.

Tutto, fin dall'apertura di Dream House, è visibilmente costruito ad hoc per convogliare l'idea di un black metal ormai affrancato dai tòpoi del genere e pronto ad assurgere a un nuovo livello "artsy". Peccato che per rifuggire da questi (fallendo anche in quel senso: il tessuto sonoro a base di blast beat, su cui troneggiano distorsioni eteree, imponenti mura chitarristiche e scream di scuola depressive, è indistinguibile da tutto ciò che la scena "blackgaze" sforna da oltre un lustro) i Deafheaven si gettino a capofitto in quelli del post-rock (emblematiche le costruzioni in inesorabile crescendo e la tendenza nociva a dilatare inutilmente i brani), in quelli emo (come dimostrano gli arpeggi rubati ai Sunny Day Real Estate), oltre che chiaramente in quelli shoegaze. La cronica incapacità del gruppo di conciliare a dovere le diverse influenze e realizzare un sound più compatto e fluido si dimostra anche nella frammentazione del disco, che sfoggia quasi dei compartimenti stagni stilistici totalmente distaccati l'uno dall'altro e incollati senza soluzione di continuità: è particolarmente evidente una divisione tra le strutture più caotiche, distorte e vorticose del black metal e dello shoegaze, e quelle più calme, introspettive dell'emo e della musica indie pop.
Le prime sono esplorate nelle tracce più lunghe, vale a dire la già citata Dream House, la title track (monocorde composizione sulle solite coordinate black metal easy-listening, che in certe sezioni pare addirittua una versione più concitata dei Fucked Up di David Comes to Life, ad ennesima conferma del target di riferimento di Sunbather) e The Pecan Tree (che per quanto si areni nei soliti schemi triti e ritriti del genere, mostra comunque delle idee più compiute, uno svolgimento più fluido e delle melodie più evocative rispetto a quanto mostrato nel resto dell'album - anche se forse si dovrebbero ringraziare i My Bloody Valentine per questo -). Ma è soprattutto Vertigo, tour de force di quasi un quarto d'ora, che incarna tutte le caratteristiche e, quindi, i difetti del disco: un'eccessiva verbosità, un prevedibile sviluppo del brano e in generale un mal celato senso di già sentito, pervadono il pezzo in tutta la sua durata, convogliando ora le sonorità di Cure e Tiamat, ora i soliti Explosions in the Sky, ora, ancora, le formazioni storiche del noise pop e dello shoegaze. Un'accozzaglia di banalità che fa percepire un minutaggio di almeno il doppio rispetto a quanto non duri in realtà.
Le sonorità più tranquille emergono quindi dagli altri tre brani, ovvero Irresistible (tre evitabili minuti di arpeggi dal sapore indie rock), Please Remember (che, aperto da dissonanze noise e dallo spoken word dell'autorevole ospite Neige, in una citazione dei momenti più sperimentali dei Godspeed You! Black Emperor, si abbandona presto all'ennesimo arpeggio di chitarra in clean - questa volta tributando la chitarra di Johnny Marr) e infine Windows, collage di voci distanti tenute insieme da un tappeto di elettronica ambientale.

Il motivo per cui un album del genere è riuscito a conquistare una così alta considerazione va cercato semplicemente nella sua facilità, che permette a coloro che sono a digiuno di black metal di approcciarsi al genere senza dover rinunciare alle sonorità cui tutti i trend di revival della scena alternativa, indie e post-punk li hanno abituati (come del resto aveva fatto anche Alcest, nel 2007, con Souvenirs d'un Autre Monde - ma con idee e realizzazione ben più convincenti e meno stereotipate). Per trovare un termine di paragone a questo lavoro, si è fatto addirittura il nome dei Weakling, una band distante anni luce per importanza, idee e stile dai Deafheaven: ennesima conferma (come se ce ne fosse ancora bisogno) dell'impreparazione che dilaga tra gli estimatori di Sunbather.

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