Indipendent Days
02/09/2007 - Arena Parco Nord - Bologna
Festival assolutamente da non perdere per gli appassionati di musica indie, alternative e affini, l’Indipendent Days 2007 si presenta in una versione in un certo senso ridotta, puntando più sulla qualità che sulla quantità delle band proposte. Il festival può infatti contare su due headliners d’eccellenza: i californiani Tool e i Nine Inch Nails di Trent Reznor.




L’ottava edizione dell’Indipendent Days si presenta divisa nettamente in due parti: il pomeriggio viene dedicato ai giovani protagonisti della musica indie, melodica e scanzonata, mentre la serata è dedicata alle atmosfere cupe, oscure e misteriose dei due co-headliners: Tool e Nine Inch Nails. Questa scelta, nonostante abbia fatto storcere il naso a diverse persone interessate solo ad alcuni gruppi della scaletta, ha permesso di riempire l’Arena Parco Nord di Bologna con una moltitudine di spettatori, e dunque una perfetta riuscita economica del festival.
Una tale affluenza ha però messo in luce alcuni problemi organizzativi: se da una parte il contesto era ottimo per quanto riguarda visibilità e godibilità del concerto, esso è risultato mal organizzato dal punto di vista dei servizi (bar e toilettes), decisamente inadeguati al numero di presenti; a ciò si è aggiunta la consueta decisione di impedire il rientro a chiunque uscisse dall’arena, che ha portato molti spettatori ad ascoltare i primi concerti dall’area della fiera per poi entrare verso sera per vedere gli headliners; personalmente credo che, ragionando bene su un sistema che consentisse ai presenti di uscire quando preferissero, e distribuendo dunque la gente tra l’arena e la fiera, che offre diverse bancarelle e bar, il tutto sarebbe stato meno caotico e decisamente più vivibile.
A parte questo appunto di carattere logistico, l’organizzazione del festival dal punto di vista prettamente musicale si è rivelata davvero ottima, con un palco all’altezza della situazione, effetti luminosi di qualità, e suoni puliti, potenti ed efficaci durante tutte le esibizioni, decisamente superiori alla media dei festival italiani.

Ottima la scelta della band italiana di apertura: i Petrol, band fondata da Dan Solo dei Marlene Kuntz e Franz Goria dei Floxus, riuniscono in un certo senso nella loro musica quelle che saranno le due anime della giornata: l’indie rock melodico dei primi gruppi e le atmosfere cupe degli headliners, in quel connubio caratteristico dell’alternative italiano che ha le sue maggiori ispirazioni in Afterhours e Marlene Kuntz.
Le canzoni proposte sono tratte dal primo e per ora unico album della band, Dal Fondo, da cui vengono tratte Nel Buio, L'ultima Notizia È La Stessa Di Sempre e Il Nostro Battito Del Cuore, mentre in chiusura troviamo l’omonimo brano Petrol, dal primo EP della band, e l’inedito Now I Cry.

Seguono i canadesi Billy Talent, band che ha raggiunto un ottimo successo commerciale negli ultimi anni, con il suo punk rock melodico dalle sfumature emo ed elettroniche. Il live set dei Billy Talent comprende alcuni brani tratti dall’album omonimo, come This Is How It Goes, Line & Sinker, The Ex e Try Honesty, e altri tratti dal secondo disco, Billy Talent II, ovvero la opener Devil In A Midnight Mass, This Suffering, Surrender, Perfect World, Fallen Leaves e Red Flag, mentre viene tralasciato il disco d’esordio Watoosh!, autoprodotto sotto il monicker Pezz.

L’Arena Parco Nord comincia a popolarsi con l’arrivo sul palco di un’altra band che ha fatto molto parlare di sè: gli ...And You Will Know Us By The Trail Of Dead, con il loro frizzante indie rock con spunti alternative ed emo. L’esibizione della band, della durata di ben un’ora in seguito al forfait dell’ottavo gruppo che era stato previsto in scaletta, i Peeping Tom del grande Mike Patton, voce dei Faith No More, si qualifica come una delle migliori della prima parte della giornata, come dimostra la sostanziosa presenza di spettatori sotto al palco; lo show dei Trail Of Dead è infatti risultato ottimo dal punto di vista della performance musicale, e movimentato da scambi di strumenti tra i musicisti, molti dei quali sono polistrumentisti, e dalla presenza di un duo di batteristi di ottima classe: Jason Reece (chitarra e voce nei primi brani) e Doni Schroader.

Il quarto gruppo a calcare il palco dell’Indipendent Days viene ancora dal Canada: gli Hot Hot Heat, band indie rock melodica e pop-oriented, non risultano però molto gradit, a causa di uno show piuttosto piatto, e di un tempo forse eccessivo (ben un’ora di concerto). L’elemento più fastidioso risulta la voce di Steve Bays, alla lunga noiosa e stancante, che fa passare in secondo piano i patterns strumentali di qualità che affiorano di tanto in tanto.
Nel corso dello show vengono anticipati alcuni brani del nuovo album Happines Ltd., in uscita la settimana successiva: Let Me In e My Best Friend, nonchè 5 Times Out Of 100, precedentemente incluso nel primo EP della band, Knock Knock Knock; molti i brani tratti dall’album del 2005, Elevator, ovvero Middle Of Nowhere, Dirty Mouth, la title track, Jingle Jangle e Island Of The Honest Man. Completano la scaletta No Not Now, Get In Or Get Out, Bandages, Talk To Me Dance With Me This Town, tratte da Make Up The Breakdown.

La conclusione della prima parte della giornata è affidata agli inglesi Maximo Park, giovane gruppo di spicco della scena indie rock britannica.
A differenza dei loro predecessori, essi si dimostrano in grado di tenere il palco per più di un’ora davanti ad una folla in gran parte accorsa per vedere i gruppi della serata, una folla che, sebbene non abbia partecipato molto come del resto è stato per tutti i gruppi del pomeriggio, ha dimostrato interesse e gradimento per la band, grazie ai brani frizzanti, ballabili, diretti e accattivanti, ad un atteggiamento un po’ da rockstar ma mai esagerato, ad una performance semplice ma efficace, e soprattutto al grande carisma del frontman Paul Smith.
I Maximo Park hanno avuto modo esaurire una buona parte della loro discografia, essendo costituita da solo due album: l’esordio A Certain Trigger, da cui sono state tratte Now I'm All Over the Shop, The Coast Is Always Changing, I Want You To Stay, Limassol, By The Monument, Going Missing, Apply Some Pressure e la conclusiva Graffiti; e l’ultimo disco Our Earthly Pleasures, uscito da pochi mesi, di cui sono state eseguite la opener Girls Who Play Guitars, A Fortnight's Time, il singolo Our Velocity, Parisian Skies, Your Urge, Books From Boxes, Sandblasted And Set Free e, in chiusura, due delle canzoni più coinvolgenti del concerto: Nosebleed e The Unshockable.

Ora si comincia a fare sul serio: è questa l’impressione che aleggia nella folla verso le otto di sera, una folla che subito dopo la fine della performance dei Maximo Park comincia ad assieparsi sotto pressione contro le transenne, in attesa della band per cui molti sono venuti a Bologna: i Tool, gruppo completamente fuori dagli schemi, dalla musica misteriosa, ipnotica e schizofrenica, in bilico tra alternative, progressive, metal, musica tribale, e chi più ne ha più ne metta, e famosa per le sue tecnicamente ineccepibili esibizioni live. Un boato si alza dalla folla non appena arriva sul palco la pedana con la mastodontica batteria di Danny Carey, seguita dai preparativi per la particolare scenografia della band, che comprende un enorme telo raffigurante la copertina dell’ultimo album, 10.000 Days, e quattro pannelli su cui verranno proiettati gli psichedelici video che accompagnano le esibizioni della band.
Si comincia con la rullata di batteria di Jambi, seconda traccia dell’ultimo disco della band, con il suo incedere folle e ipnotico, guidato dalla strabiliante precisione di Carey, vero e proprio motore della band in sede live, mentre la chitarra potente e distorta di Adam Jones, che si prodiga nel celebre assolo suonato con l’ausilio della voce, e il basso roboante ed effettato di Justin Chancellor non sono da meno, con una prestazione strumentale pari a quella di studio e un’acustica ineccepibile. Perfetta anche la parte vocale di Maynard James Keenan, che, nella solita tenuta con cresta e cappello da cowboy, si mantiene come di consueto nelle retrovie del palco, contorcendosi in modo spiritato davanti ai maxischermi. La tensione sotto il palco è molto alta, ed un pogo forse più violento di quanto il buonsenso consiglierebbe costringe molte persone a fuggire dalle prime file per godersi meglio il concerto.
Si continua con la furiosa opener di Aenima, Stinkfist: pesante, violenta, aggressiva, tramortisce il pubblico con una potenza devastante, prima che il riff orientaleggiante di Adam Jones introduca in modo maestoso un altro dei pezzi migliori del secondo album della band: 46&2, ancora più compatta e distruttiva della versione su disco. Si passa poi al penultimo album, Lateralus, con quello che è da molti ritenuto il pezzo migliore mai scritto dai Tool: la complessa e contorta Schism. E’ semplicemente incredibile vedere come Danny Carey si destreggi con una tranquillità disumana tra i tempi impossibili di questo pezzo, mentre un Maynard meno scontroso del solito concede addirittura l’onore di rivolgersi verso il pubblico.
Si torna all’ultimo full lenght della band, con la folle e intricata Rosetta Stoned, sicuramente il pezzo più riuscito e tirato dell’esibizione, complici oltre ad una prestazione perfetta e molto coinvolgente anche gli stupefacenti effetti di luci e laser; è poi la volta della violenta e acida Flood, unico pezzo tratto da Undertow.
Si prosegue con la celebre Lateralus, interrotta da un incredibile assolo di Danny Carey, accompagnato da due sessionmen percussionisti, mentre la opener dell’ultimo album, Vicarious, chiude tra la gioia della folla un’esibizione che ha saputo assolutamente tenere fede alla fama della band, e anzi si è rivelata priva degli atteggiamenti discutibili che caratterizzano a volte le esibizioni di Keenan.
In conclusione, un’esperienza unica per chi non aveva mai visto i Tool in sede live, e una conferma per chi già era andato ai loro concerti, nonostante l’amarezza per una scaletta molto simile ai concerti precedenti e, come già previsto della scaletta del festival, decurtata per solamente un’ora e un quarto di concerto.

Il pubblico si concede circa tre quarti d’ora di respiro, mentre sul palco fervono i preparativi per l’ultimo gruppo della serata: annoverati tra i padri dell’Industrial Rock, uno dei gruppi più influenti della scena rock moderna, e tornati alla ribalta con due dischi in due anni dopo anni di silenzio, i Nine Inch Nails, solo project del carismatico ed istrionico polistrumentista Trent Reznor, si presentano in sede live con una formazione che prevede, oltre a Trent, quattro sessionmen, tra cui il tastierista e polistrumentista italiano Alessandro Cortini, componente anche del progetto Modwheelmood, acclamato a gran voce dalla folla durante il concerto. Completano la formazione il chitarrista Aaron North, il bassista Jeordie White a.k.a. Twiggy Ramirez (ex Marylin Manson e A Perfect Circle), e il drummer Josh Freese, componente fisso degli A Perfect Circle e noto sessionman americano.
E’ la opener strumentale del nuovo disco Year Zero, la acida Hyperpower!, ad aprire le danze, ed in senso letterale, poichè subito si passa alla traccia successiva dell’album, The Beginning Of The End, che incarna lo spirito elettronico e allucinato della nuova era NIN, dotato però in sede live di un sound meno artificiale e più potente, che cattura lo spettatore al primo ascolto.
Allucinato è pure il brano successivo, Heresy, tratto da quello che in molti ritengono essere l’album migliore mai fatto da Trent: il concept The Downward Spiral. Trent Reznor dà prova di una prestazione vocale perfetta, e di una presenza scenica molto forte: compatto, essenziale, aggressivo e rabbioso, in mezzo a nuvole di fumo e luci spettacolari, cattura completamente il pubblico che scandisce a braccia alzate il famoso ritornello “God is dead, and no one cares. If there is a hell, I’ll see you there”. I Nine Inch Nails continuano a rispolverare i cavalli di battaglia del passato: Terrible Lie, dal primo disco Pretty Hate Machine, e, ancora da The Downward Spiral, le storiche March of The Pigs e Closer, fino a tornare all’alienante singolo apripista di Year Zero, Survivalism; l’atmosfera è perfetta, costruita dagli effetti moderni e tecnologici di chitarra, basso e synth, e dalla straordinaria precisione di Freese, vera e propria drum machine in carne ed ossa.
Si torna poi ad atmosfere furiose e nichiliste con Burn, brano appositamente scritto per la colonna sonora del film Natural Born Killers, e Gave Up, tratta dall’album Broken, prima di una breve pausa per alcuni cambi di scenografia. Un pannello viene abbassato sulla parte anteriore del palco, e davanti ad esso vengono collocati tre synth, dove prendono posto Trent, Cortini e North; si passa dunque ai brani più elettronici di Year Zero, Me I’m Not e The Great Destroyer, mentre meravigliosi ed ipnotici effetti di luce vengono proiettati alle spalle dei tre: è uno spettacolo unico, il trionfo della tecnologia e della modernità, in un’atmosfera cybernetica e surreale.
Si torna ancora a The Downward Spiral, con una contorta, angosciante ed emozionante Eraser, per poi passare ad uno dei due pezzi tratti dal penultimo album, With Teeth: Only, in occasione del quale la sagoma di Trent appare dietro le luci del pannello ricordando il movimento dei chiodi nel video della canzone. E’ poi la volta di Wish, da Broken, metallica e semplicemente devastante in sede live, per poi passare all’ultimo brano tratto da Year Zero, The Good Soldier, e dall’unico estratto da Fragile, No You Don’t, anch’essa potente e trascinante.
Si continua con l’oscura cover dei Joy Division Dead Souls, realizzata da Trent per la colonna sonora de Il Corvo, e la pop-oriented The Hand That Feeds, da With Teeth, in occasione della quale Reznor si serve di Cortini come traduttore istantaneo per ringraziare calorosamente il pubblico, e pronunciare un discorso a favore della pirateria musicale, accolto da tutti i presenti con un grande applauso: “Vaffanculo a tutte le case discografiche! Rubate e scaricate tutta la mia musica, fatela conoscere a più persone possibili, e venite a vedere i nostri concerti” A parte una sottile impressione di ipocrisia per una band che, pur essendo alternativa, ha sempre fatto parte del mercato musicale, sembra che Trent abbia davvero capito come devono andare le cose.
La conclusione del concerto è affidata ad un altro classico di grande impatto: Head Like A Hole, tratta da Pretty Hate Machine, lascia un pubblico entusiasta che chiede a gran voce il ritorno della band sul palco. C’è tempo allora ancora per una canzone, e Trent regala a tutti i presenti una meravigliosa ed emozionante piano version di Hurt, traccia conclusiva di The Downward Spiral, che conclude nel modo migliore un concerto memorabile, con una valida scaletta che ha tenuto in uguale considerazione pezzi nuovi e classici del passato.
Il logo dei NIN svetta trionfale sul palco dell’Indipendent Days 2007, essenziale e moderno come la loro musica, a testimonianza di una band che ha ancora molto da dire e da fare.

Lorenzo "Glorfindel89" Iotti

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