Fear Factory
19/03/2006 - Rolling Stone - Milano

Inutile dire che il concerto dei Fear Factory, fosse attesissimo. Era dal lontano 2001 che i quattro metaller non mettevano piede in territorio italiano. Durante tutti questi anni, ne sono successe di cose e, una di queste, è l’addio definitivo del grande Dino Cazares in cui molti fans, identificavano il leader vero e proprio della band. Nonostante questo, però, il pubblico è numerosissimo e pronto a dar fuoco alla sala del Rolling Stone di Milano.


Dopo una piccola introduzione dell’americanissimo tour manager dei Fear factory, si apre il concerto con una song del nuovo album (Transgression), 540,000 Degrees Fahrenheit grazie alla quale viene dato il via libera al pogo più sfrenato. Burton C. Bell non sembra in gran forma e la stessa impressione danno gli altri tre componenti della band che pare stiano suonando solo perché devono farlo. Si spera solo che questo sia il classico “riscaldamento” di una squadra che ancora deve ingranare (utilizzando termini calcistici). Finito il brano, il singer fa un breve discorso dicendo che era da tanto che non venivano in Italia (2001) e questo gli è pesato, perché il pubblico italiano è unico al mondo. La reazione, è stato un mega boato che ha fatto tremare l’intero locale. Si riparte poi con Trangression, che risulta essere piuttosto fedele alla registrazione da album e che la folla accoglie calorosamente. Il bello, però, deve ancora venire. Con Demanufacture, iniziano a sgranchirsi le gambe dei fans che, sentendo il rumoreggiare pre-concerto, sono giunti all’appuntamento, più che altro per sentire suonare ancora una volta, i vecchi brani che tanto hanno reso famosi i Fear Factory e che hanno fatto sì che milioni di persone li inneggiasse per tutti gli anni ’90. Burton, non sembra riuscire a guidare il pubblico e si limita solamente ad appoggiare il piede sulla spia e a roteare, qualche volta, la testa. Dopo l’ennesima pausa di qualche secondo e una bevuta per schiarirsi la gola, si arriva finalmente nel cuore del concerto. E’ così che si aprono letteralmente le danze, con Shock. Qui il delirio è assoluto ed è il momento in cui gli addetti alla sicurezza, devono fare un gran lavoro per prendere e scaraventare via i numerosi fuori di testa che hanno deciso di lasciarsi trascinare dall’ondata sonora che Shock sprigiona in tutta la sua potenza. Sembra quindi, che il pubblico stia incominciando a divertirsi e, forse, il concerto sta prendendo la piega giusta. E in effetti, così è.
Arriva Edgecrusher in cui la performance di Burton non è delle migliori ma ha dalla sua, una forte capacità nell’adattare la voce alla situazione in cui si trova. Per questo motivo, il pubblico sembra più che soddisfatto e il pogo che era scaturito con Shock, continua anche con Edgecrusher, con la sola differenza che questa volta si è ancora più caricati e motivati nel travolgere qualsiasi cosa si trovi nel proprio “cammino”. Da questo momento in poi, viene la parte più bella dell’intero show. Si vede quindi l’esecuzione di Linchpin (senza dubbio quella meglio eseguita) e di Acres of Skin. La folla è ormai nel delirio più totale e sembra quasi di essere entrati in un mondo fatto di chaos e follia. Il culmine viene raggiunto con Slave Labor dove, sempre più stanco, Burton C. Bell salta lungo tutto il palco per la prima volta dall’inizio del concerto, buttandosi anche in mezzo al pubblico che sembra intenzionato a prenderselo e portarselo a casa. Questo sfogo d’ira, gli dà la mazzata definitiva e, da ora in poi, si limiterà soltanto ad appoggiare il piede sulla spia. Tra gli ultimi pezzi, figurano Archetype e Replica che fanno presagire alla folla un mega finale di totale brutalità. Così, purtroppo, non è. Dopo aver concluso Replica, le luci rimangono abbassate e la band se ne va via. Tutti si chiedono se il concerto sia finito o meno e, dopo qualche minuto viene illuminata di blu la batteria e fa il suo ingresso sul palco il cantante che, completamente a pezzi, intona Timelessness. Tutti sono ammutoliti e, dando un’occhiata in giro, sono tante le persone che scuotono la testa in senso negativo come per dire: “ma cosa sta facendo?”. In effetti la conclusione è stata un po’ triste soprattutto per il fatto che si sentiva chiaramente, quanto fosse tirata la voce di Burton.

Nel complesso è stato un bel concerto che, però, nulla ha a che vedere con i famosi show degli anni ’90. La sensazione è stata di vedere un gruppo che, ormai, sta insieme per miracolo e, dopo l’addio di Cazares, pare proprio che le motivazioni siano ormai perdute. Questo viene sottolineato ulteriormente, dalla mancanza di potenza che un live show deve riuscire a trasmettere al suo pubblico.Gli stessi suoni, non sembravano essere ben equilibrati, avendo così come risultato una batteria troppo alta rispetto a tutti gli altri strumenti. Si spera solo che questo sia un momento di passaggio e riflessione, per un gruppo che in passato ha veramente toccato il cielo con un dito.

Scaletta Fear Factory:
540,000 Degrees Fahrenheit, Transgression, Demanufacture, Self Bias Resistor, Zero Signal, Shock, Edgecrusher, Linchpin, Acres of Skin, Big God/Raped Souls, Martyr, Scumgrief, Spinal Compression, Slave Labor, Cyperwaste, Archetype, Replica, Timelessness

Report e foto - Matteo "trendkill" Mainardi

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